Siria: come siamo arrivati al caos attuale
Sono passati più di quattro anni e mezzo da quando è scoppiata la guerra in Siria. Da allora hanno perso la vita più di 250 mila persone, e quattro milioni di siriani vivono ora al di fuori dei confini della loro patria. Pochi “fortunati” emigrati in Europa, moltissimi di più nei campi profughi turchi, libanesi o giordani. Il loro Paese è diventato progressivamente lo sfogatoio delle pulsioni egemoniche (e delle paure) degli attori regionali, la calamita per eccellenza del fanatismo jihadista, la pedina di un Grande Gioco che coinvolge anche le superpotenze mondiali e di cui ancora non si intravede la fine. Ma quali sono i fili che, tendendosi e cambiando improvvisamente angolazione, hanno reso lo scenario siriano un groviglio inestricabile?
Sono passati più di quattro anni e mezzo da quando è scoppiata la guerra in Siria. Da allora hanno perso la vita più di 250 mila persone, e quattro milioni di siriani vivono ora al di fuori dei confini della loro patria. Pochi “fortunati” emigrati in Europa, moltissimi di più nei campi profughi turchi, libanesi o giordani. Il loro Paese è diventato progressivamente lo sfogatoio delle pulsioni egemoniche (e delle paure) degli attori regionali, la calamita per eccellenza del fanatismo jihadista, la pedina di un Grande Gioco che coinvolge anche le superpotenze mondiali e di cui ancora non si intravede la fine. Ma quali sono i fili che, tendendosi e cambiando improvvisamente angolazione, hanno reso lo scenario siriano un groviglio inestricabile?
L’inizio della rivolta
A inizio 2011 il vento delle Primavere Arabe soffia su tutto il Medio Oriente. A gennaio in Tunisia è stata abbattuta la venticinquennale dittatura di Ben Alì, in Egitto a febbraio si è dimesso – dopo trent’anni al potere – Hosni Mubarak, la Libia di Gheddafi è sconvolta dalle proteste, e così lo Yemen, il Bahrein, l’Iraq e la Giordania. In Siria a marzo cominciano i cortei di protesta contro Assad e settimana dopo settimana diventano sempre più imponenti . Il contenimento della polizia diventa una brutale repressione militare, le manifestazioni si trasformano in insurrezione armata. L’estate passa in un crescendo di scontri e violenze. In autunno la guerra è sotto gli occhi di tutto il mondo.
La mutazione: da Primavera Araba a proxy war tra Iran e Sauditi
A inizio 2012 le massicce defezioni di ufficiali e soldati dal lato della dittatura vanno a ingrossare le fila dell’Esercito Siriano Libero (ESL), il primo nucleo armato e organizzato dei ribelli – supportato specialmente dalla Turchia – che comincia ad ottenere i primi successi contro il regime di Damasco. Parallelamente sono tuttavia già attivi sul territorio diversi gruppi jihadisti, finanziati soprattutto da Qatar (che in quel periodo, insieme alla Turchia, è in una fase di attivismo politico-internazionale per supportare la Fratellanza Musulmana nei Paesi travolti dalle Primavere Arabe) e Arabia Saudita (che invece considera i Fratelli Musulmani dei terroristi, ma non esita ad armare cellule salafite ancor più fanatiche – e legate ad Al Qaeda, come Jabhat al Nousra – pur di abbattere Assad). Il 2012 è un anno di importanti vittorie per gli insorti, ma la compresenza di diverse agende e di diversi interessi all’interno della ribellione – turchi, sauditi, qatarioti, locali etc – presto ne frantuma l’unità. Si registrano anche i primi episodi di violenza confessionale: le formazioni jihadiste attaccano le minoranze cristiana, drusa, sciita e alawita (quella del presidente Assad), cominciando ad alienare alla ribellione parte della simpatia popolare di cui godeva all’inizio. Vista la situazione di debolezza del regime di Damasco, e per contrastare la oramai palese presenza di interessi stranieri (Sauditi e Turchi specialmente) ad abbattere Assad, a metà 2013 intensificano il proprio coinvolgimento anche gli alleati del dittatore: l’Iran, Hezbollah libanese e – in misura minore – la Russia. Al governo siriano arrivano armi, finanziamenti e, soprattutto, combattenti. Nella regione di confine col Libano le forze lealiste scatenano un’offensiva che, col determinante contributo di Hezbollah, scaccia i ribelli e per la prima volta dall’inizio della rivolta li costringe sulle difensive. Quella che era nata come una Primavera Araba diventa a questo punto una “proxy war” tra Iran e Arabia Saudita, le due potenze regionali che, sfruttando l’odio intra-religioso tra sunniti e sciiti, si contendono l’egemonia sul Medio Oriente.
Il contesto: l’accordo sul nucleare iraniano e il nervosismo saudita
La lotta egemonica tra Teheran e Riad è inasprita dalla prospettiva, emersa nel 2013, di un accordo tra l’Iran e il 5+1 (gli Stati membri del Consiglio di sicurezza dell’Onu, più la Germania) sul nucleare persiano. Più che la questione atomica in sé, spaventa i Sauditi la prospettiva che l’Iran emerga come nuovo interlocutore internazionale e come potenza economica (lo sblocco delle sanzioni si stima porti alle casse iraniane oltre 100 miliardi di dollari). Inoltre preoccupa Riad anche la linea strategica che va delineando l’amministrazione Obama, di ridurre il coinvolgimento americano nello scenario mediorientale in favore di un maggior impegno nell’area dell’Oceano Pacifico. Quasi a confermare i peggiori sospetti sauditi, a settembre 2013 l’America, dopo aver minacciato che sarebbe intervenuta contro Assad se fossero state usate armi chimiche nel conflitto, evita di portare le proprie parole alle estreme conseguenze: di fronte alle prove dell’utilizzo di tali armi non convenzionali preferisce una strada diplomatica – propiziata dalla Russia – che smantelli l’arsenale chimico di Damasco ma le eviti il coinvolgimento nella guerra. Per molti analisti la Casa Bianca non ha voluto abbattere il regime di Assad in quel momento per il timore del forte elemento fanatico-islamico presente nella ribellione, e quindi per la mancanza di una exit strategy per il Paese.
Il fallimento turco
In questo contesto già confuso di proxy war tra Iran e Arabia Saudita, si inserisce poi anche la Turchia. Durante le Primavere Arabe il premier islamista, Recep Tayyip Erdogan, aveva sottolineato la vicinanza ideologica tra il proprio partito (AKP) e la Fratellanza Musulmana, e aveva quindi sostenuto quest’ultima in tutti gli Stati coinvolti dai moti rivoluzionari (Siria inclusa) coltivando l’aspirazione di avere un domani un ruolo guida nella regione. Se in un primo momento quella di Erdogan era sembrata una scommessa azzeccata – specie con la vittoria dell’islamista Mohammed Morsi in Egitto -, nel biennio 2013-14 la situazione si capovolge. In Egitto, a luglio 2013, il colpo di Stato del generale Al Sisi depone Morsi e ri-mette al bando la Fratellanza; in Libia le fazioni islamiche e quelle laiche finiscono per spaccare in due il Paese, con un governo a Tripoli (sostenuto da Ankara) e uno a Tobruk (riconosciuto internazionalmente); in Tunisia i partiti laici vincono le elezioni del 2014 sconfiggendo le formazioni islamiche. Ankara si trova così isolata e spaesata. In Siria sostiene a oltranza le formazioni vicine alla Fratellanza (e l’ESL che ne è il braccio militare), ma si scontra non solo con le forze regolari di Assad e i suoi alleati sciiti, ma anche con l’ostilità degli altri sunniti (foraggiati dalla casa reale saudita, storica nemica dei Fratelli Musulmani). Inoltre si fa sempre più pericolosa per la Turchia la situazione del Kurdistan. I curdi siriani, politicamente vicini a quelli turchi del Pkk (organizzazione terroristica per la Turchia e gli Usa), prima scacciano le forze di Assad dai propri territori, poi iniziano a scontrarsi con le fazioni islamiche, nel frattempo divenute prevalenti all’interno della ribellione. In entrambi i casi riportano importanti vittorie e iniziano ad amministrare il nord della Siria (la Rojava) come un’entità autonoma. L’incubo di Ankara è che nel caos siriano possa nascere uno Stato curdo (la maggior parte dei curdi vive in Turchia e da decenni rivendicano l’indipendenza), ideologicamente legato al Pkk.
L’ascesa dello Stato Islamico
Già durante il 2013, nel caos creato dalla frammentazione della ribellione, si fa notare un gruppo islamista – particolarmente sanguinario, composto soprattutto da stranieri e, pare, in principio foraggiato dai sauditi – che combatte contro il regime ma attacca ferocemente anche altre fazioni ribelli ritenute troppo “laiche” e filo-americane, ne uccide i comandanti e porta ai massimi storici gli scontri interni alla ribellione. Si tratta dell’Isis, una formazione nata dall’unione di ex ufficiali del regime iracheno di Saddam Hussein e fanatici islamici. Il salto di qualità arriva a giugno 2014, quando gli uomini in nero dell’Isis riescono a conquistare Mosul, seconda città dell’Iraq. Qui trovano gli ingenti armamenti di fattura americana abbandonati dall’esercito iracheno in fuga, oltre a centinaia di milioni di dollari nei caveau delle banche. Il leader religioso dell’Isis, Abu Bakr al-Baghdadi, proclama il Califfato nei territori controllati in Iraq e in Siria. Grazie alle nuove risorse acquisite, lo Stato Islamico può lanciare (sia contro i lealisti sia contro i gruppi ribelli “nemici”) una massiccia offensiva nella zona desertica orientale della Siria, e ad acquisirne il totale controllo. A fine luglio la “capitale” della sponda siriana del Califfato viene posta a Raqqa. Complice una abile strategia mediatica del terrore, e alcuni sanguinosi attentati in Occidente di “lupi solitari” che si richiamano all’Isis, lo Stato Islamico acquisisce grande visibilità. Molti jihadisti accorrono – anche dall’Europa e dal Caucaso – a ingrossarne le fila e, di contro, a settembre gli Stati Uniti si mettono alla testa di una coalizione internazionale (di cui fa parte anche l’Arabia Saudita) che ha come obiettivo la distruzione dell’Isis.
Le conseguenze dell’ascesa dello Stato Islamico
La forte presenza dell’Isis rende ancor più contraddittorio lo scenario siriano. L’Occidente, pur dichiarando a parole di volere la rimozione di Assad, finisce col favorirlo colpendo lo Stato Islamico, uno dei suoi più agguerriti nemici. Non può però eccedere nella sua azione (che infatti si limita a bombardamenti mirati dal cielo) per non favorire troppo Assad, cosa che irriterebbe i suoi alleati storici (Turchia e Sauditi) che invece mirano a far cadere il dittatore e a sottrarre così una pedina strategica al nemico iraniano. L’Occidente inoltre usa come fanteria contro lo Stato Islamico i guerriglieri curdi – gli unici ad aver dimostrato sul campo un’organizzazione efficiente contro gli uomini in nero dell’Isis -, ma non li arma quanto potrebbe (e servirebbe) per timore di logorare i rapporti con la Turchia. La guerra all’Isis va a rilento e non produce grandi risultati. Per Ankara e Riad, tuttavia, il quadro è ugualmente sfavorevole: sono entrambe tentate dall’utilizzare l’Isis contro i propri nemici (Assad e curdi) anche se sanno che la presenza dello Stato Islamico rappresenta per loro un boomerang, alienando al fronte sunnita le simpatie occidentali che, per reazione, si spostano sull’asse sciita guidato dall’Iran (ieri “asse del male”, oggi potenziale alleato contro l’Isis, in Siria come in Iraq). Di fronte a questa situazione – e alle oramai frequenti vittorie del regime e dei suoi alleati sul terreno – Turchia, Arabia Saudita e Qatar reagiscono mettendo da parte le differenze e propiziando, a inizio 2015, una riunificazione di numerosi gruppi ribelli (tra cui i qaedisti di al Nousra), escludendo lo Stato Islamico (che anzi viene formalmente considerato un nemico). La nuova coalizione ha un forte impatto sulla guerra e per la prima volta dal 2013 le forze governative sembrano in grave difficoltà: in primavera perdono Idlib e altri importanti centri, appaiono esangui (sempre meno effettivi) e sfilacciate, anche l’aiuto iraniano e russo sembra essersi ridotto, mentre quello turco e saudita ai ribelli è aumentato. Ma per Ankara le difficoltà del regime di Damasco sono una buona notizia che impallidisce di fronte a quella “brutta” della continua ascesa – militare sul terreno, e diplomatica presso l’Occidente – dei curdi siriani, impegnati nella guerra contro l’Isis. Erdogan allora rompe l’isolamento in cui era finito schierando definitivamente, nell’estate 2015, la Turchia contro l’Isis, controllando realmente la frontiera siriana, concedendo – dopo anni di dinieghi – la base aerea di Incirlik agli Usa e partecipando ai bombardamenti della coalizione (finora comunque scarsamente efficaci). In realtà diventa subito chiaro che l’obiettivo di Ankara non è tanto bombardare lo Stato Islamico quanto i curdi, in particolare il Pkk, con cui rompe la tregua che durava dal 2013.
La reazione della Russia
Dopo l’estate la situazione sul terreno vede il regime di Damasco in grave difficoltà su tutto il territorio, i gruppi ribelli (in particolare al Nousra) che espandono le proprie aree di influenza e lo Stato Islamico che – nonostante i bombardamenti della coalizione guidata dagli Usa – continua a resistere nell’area che va dall’est della Siria fino all’ovest dell’Iraq. La Russia, rimasta sempre al fianco di Assad anche se con un contributo piuttosto ridotto, di fronte al pericolo di perdere la propria base navale di Tartous (l’unica russa in tutto il Mediterraneo) e in generale la sponda dell’alleato siriano, decide di intervenire massicciamente nel conflitto. Da settembre 2015 Mosca invia caccia, navi, mezzi corazzati, armamenti pesanti e corpi speciali in Siria. Le basi russe già presenti vengono ampliate, altre nuove vengono costruite. Il pretesto – fornito anche dai tentennamenti degli Usa – è “la guerra allo Stato Islamico”, ma diventa subito chiaro che il vero bersaglio del Cremlino è l’intera ribellione, in generale chiunque si opponga ad Assad : i qaedisti di al Nousra come i moderati del ESL. I bombardamenti cominciano e le sorti della guerra siriana sembrano poter cambiare ancora una volta.
Il quadro attuale e le prospettive future
Al momento sono dunque in corso due guerre parallele in Siria. Quella della coalizione a guida Usa, con il supporto a terra dei Curdi, contro lo Stato Islamico, e quella di Russia, Iran, Hezbollah e governo siriano contro il resto della ribellione. Due imponenti offensive di terra pare siano alle porte: da ovest verso est quella a guida russa, da nord verso sud quella a guida americana. Al netto della propaganda occidentale è ovvio che il risultato di queste azioni sarà rafforzare la dittatura di Assad, e l’insistenza sulla necessità di salvaguardare la parte moderata della ribellione (perché un domani sia possibile una transizione democratica) sembra più che altro di facciata. Nei fatti, colpendo entrambi i maggiori nemici di Damasco nella guerra civile si allontana il rischio che la dittatura di Assad crolli improvvisamente, compromettendo gli interessi russi e iraniani (questo è il timore di Mosca e Teheran) e lasciando il Paese alla mercé dei gruppi fanatici islamici (timore di Usa ed Europa). Attualmente il pericolo – considerato da diversi analisti – è che l’intervento filo-sciita della Russia scateni l’ennesima contro-reazione saudita (e sunnita in generale). Riad di recente è stata molto attiva nel mercato delle armi sofisticate. Se iniziasse ad inviarle ai ribelli perché vengano usate contro obiettivi russi, il rischio di scivolare in una guerra di proporzioni ancora maggiori sarebbe dietro l’angolo. Anche la Turchia potrebbe essere fonte di tensioni: i caccia russi volano al confine con un Paese Nato e i rispettivi interessi – tanto circa la caduta di Assad, quanto circa la questione curda – vanno divergendo.
Sono passati più di quattro anni e mezzo da quando è scoppiata la guerra in Siria. Da allora hanno perso la vita più di 250 mila persone, e quattro milioni di siriani vivono ora al di fuori dei confini della loro patria. Pochi “fortunati” emigrati in Europa, moltissimi di più nei campi profughi turchi, libanesi o giordani. Il loro Paese è diventato progressivamente lo sfogatoio delle pulsioni egemoniche (e delle paure) degli attori regionali, la calamita per eccellenza del fanatismo jihadista, la pedina di un Grande Gioco che coinvolge anche le superpotenze mondiali e di cui ancora non si intravede la fine. Ma quali sono i fili che, tendendosi e cambiando improvvisamente angolazione, hanno reso lo scenario siriano un groviglio inestricabile?
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