Doveva finire il 21 febbraio lo stato di emergenza in Tunisia, e invece a sorpresa il Presidente Beji Caïd Essebsi lo ha procrastinato di un altro mese. E’ da novembre, da quando una bomba ha insanguinato un autobus della Guardia presidenziale proprio nel cuore della capitale, che la Tunisia è tornata a condizione di allarme estremo.
Il futuro della giovane democrazia è ancora pieno di incognite, minacciato oggi anche da uno sviluppo politico importante: il partito di ispirazione laica e progressista Nidaa Tounes, vincitore delle elezioni del 2014, sta perdendo consensi e seggi, con 19 deputati che hanno cambiato gruppo in Parlamento, mentre quello islamico di Ennahda sta riconquistando terreno. E una nuova crisi sembra in arrivo.
All’instabilità politica si aggiungono i problemi economici: unico elemento positivo i dati sull’esportazione dell’olio di oliva, che fanno della Tunisia il principale produttore del mondo. Ma è soprattutto il fronte esterno, il problema della Libia, ad agitare le notti del presidente Essebsi. I documenti diffusi da WikiLeaks il 17 febbraio sembrano confermare le indiscrezioni su un futuro attacco occidentale in Libia. Per il New York Times squadre americane e britanniche sarebbero già entrate clandestinamente nel paese per compiere missioni di ricognizione, e gli Usa starebbero cercando invano di stringere alleanze con le varie milizie libiche. Gli alleati occidentali temono il rafforzarsi di Daesh lungo i 250 chilometri di costa libica attorno a Sirte, meglio conosciuti come “mezzaluna del petrolio”, scrive Jawed Zouari, professore di Scienze Politiche al Seattle Central College, su Tunisia Live.
La sponda sud del Mediterraneo però non condivide gli entusiasmi bellici occidentali, Algeria e Tunisia infatti hanno ribadito il proprio no alla guerra in più occasioni, sollecitando percorsi politici e pacifici. Tunisi in particolare è pesantemente esposta alle conseguenze negative di una eventuale guerra in Libia. Il Paese teme di essere costretto a offrire basi logistiche per operazioni militari ed è preoccupato dalla prospettiva dell’afflusso di centinaia di migliaia di profughi, che in questo momento non sarebbe in grado di accogliere e di gestire. La Tunisia ha già dato prova del proprio spirito di ospitalità quando nel 2011 accolse i rifugiati libici sulla frontiera con coperte e tè, in un caloroso abbraccio umano. All’epoca i due Paesi, con la cacciata dei rispettivi dittatori, condividevano un pezzo di storia e di destino. Ma oggi le cose sono cambiate.
Nell’ultimo anno la Tunisia è stata scossa da gravi attentati terroristici, le crisi politiche sono sempre sull’orlo di esplodere, l’economia è in recessione, il turismo ha subito colpi mortali e l’entusiasmo della rivoluzione si è dissolto nelle difficoltà della vita quotidiana. E i 1500 giovani partiti per il jihad sono una ferita che non si rimargina. Il Paese teme che con un’escalation della guerra in Libia molti di questi jihadisti tunisini possano tornare in patria, per unirsi alle fila di Ansar al-Sharia e di altri gruppi vicini ad Al Qaeda, rompendo equilibri già fragili. Per questo motivo il governo punta sulla stabilità interna e sul controllo della frontiera.
Ci sono poi i tunisini che vivono nelle regioni meridionali e che ogni giorno varcano la frontiera a Ben Guerdane per entrare in Libia a lavorare: temono che la guerra possa compromettere commercio e cooperazione. La posizione del governo, contraria alla guerra, dunque è chiara, anche se poi lo stesso Essebsi si è ammorbidito e ha chiesto che gli venisse comunicato l’inizio delle operazioni, dandole quindi per scontate. Ma l’opinione pubblica è più articolata, scrive il politologo Alaya Allani su Arab Weekly. Accanto a chi nell’intervento vede l’ennesima espressione di una politica imperialista ed evoca lo spettro della polveriera irachena, c’è anche chi in esso scorge l’unico strumento possibile per abbattere il terrorismo. Dinanzi alle forze che Daesh sta accumulando a Sabratha, a soli settanta chilometri dal confine tunisino – spiega Allani – bisogna impedire che i jihadisti trovino una via per infiltrarsi nel Paese. Qualche voce già riferisce di migliaia di passaporti falsi in circolazione. Una parte della popolazione, in sostanza, nell’intervento militare non vede alcun pericolo per la Tunisia. Ciò che conta è che la frontiera venga messa in sicurezza e che cessi il pericolo jihadista, in modo che anche le attività economiche e commerciali tra i due paesi possano finalmente riprendere del tutto.
@Seregras
Il futuro della giovane democrazia è ancora pieno di incognite, minacciato oggi anche da uno sviluppo politico importante: il partito di ispirazione laica e progressista Nidaa Tounes, vincitore delle elezioni del 2014, sta perdendo consensi e seggi, con 19 deputati che hanno cambiato gruppo in Parlamento, mentre quello islamico di Ennahda sta riconquistando terreno. E una nuova crisi sembra in arrivo.