Grazie ai suoi storici rapporti con gli stati turcici della regione, Ankara gioca un ruolo cruciale in uno dei risiko energetici e geopolitici più importanti del mondo.
Quando, nel dicembre del 1991, l’Urss cessò ufficialmente di esistere, ad Ankara si festeggiò. Di fronte alla Repubblica turca si spalancavano praterie (anzi: steppe) di opportunità nell’Asia centrale post-sovietica. “Il prossimo secolo sarà un secolo turco” vaticinava nel 1992 l’allora presidente Turgut Özal. Questo “nuovo mondo” entusiasmava, in particolare, i nazionalisti: l’antico sogno del movimento pan-turco di liberare i “turchi prigionieri” del Türkistan russo, e creare un grande spazio comune tra il Mediterraneo e la Cina, era a portata di mano.
“La Turchia è stata il primo paese a riconoscere l’indipendenza degli stati dell’Asia centrale e del Caucaso meridionale nel gennaio 1992, e a inviarvi dei rappresentanti diplomatici. Ciò permise ai nuovi stati di entrare nell’Organizzazione di Cooperazione Economica (ECO), fondata dai turchi nel 1985 con l’Iran e il Pakistan” – spiega Sébastien Peyrouse, professore della Elliott School of International Affairs della George Washington University.
Per William Hale, docente emerito alla School of Oriental and African Studies della London University, “dopo la dissoluzione dell’Urss, ad Ankara si nutrirono audaci speranze di creare un’unione pan-turca. Tale aspettativa si basava soprattutto sui legami culturali, e sull’assunto che la potenza russa non sarebbe risorta”. La storia però è andata in modo diverso. In primis per il ritorno della Russia putiniana sulla scena mondiale, ma non solo.
“Ankara sperava di partecipare allo sviluppo politico locale esportando il suo modello (di successo) di democrazia, laicità e modernità. – osserva Peyrouse – Ma l’ingenuo ottimismo di quegli anni le fece commettere degli errori. I leader dell’Asia centrale iniziarono presto a denunciare il nuovo “grande fratello” turco”.
I paesi del Türkistan, specie quelli più ricchi di idrocarburi, hanno dimostrato di aver appreso la lezione sovietica, e di non voler essere semplici pedine di un nuovo “grande gioco” tra Usa, Russia, Cina e, appunto, Turchia. Leader autoritari come Islom Karimov in Uzbekistan sono sovranisti di ferro. E non è un satellite turco neppure l’Azerbaigian, grande alleato di Ankara nel Caucaso e in Asia centrale (a dicembre il primo ministro turco Ahmet Davutoglu, di fronte a una calorosa platea di studenti universitari azeri, ha lodato la “partnership strategica” tra Baku e Ankara).
“Dalla metà degli anni ’90 a oggi ogni opinione pan-turca è stata vista in Asia centrale come un tentativo di mettere in discussione la legittimità dello Stato, ed è stata marginalizzata a livello politico e culturale, e confinata agli ambienti dissidenti. In più i due paesi più autoritari, Uzbekistan e Turkmenistan, hanno regolarmente accusato Ankara di accogliere dissidenti, e hanno cercato di limitare l’influenza turca” nota Peyrouse.
Secondo una fonte diplomatica europea ad Astana, “i turchi hanno la tendenza a considerare l’Asia centrale un po’ come il loro cortile, e questo piace poco. Ma anche se non hanno certo il peso di Mosca, Washington o Pechino, la loro influenza economica e soprattutto culturale si sente. Sono una specie di jolly, che potrebbe far pendere la bilancia da una parte o dall’altra”. In Kazakistan, prima economia della regione, la Turchia è un importante investitore, specie in settori come le costruzioni, il tessile e i servizi. E in Azerbaigian, paese ponte tra l’Europa e l’Asia centrale, Ankara è addirittura primo partner commerciale, al pari della Russia.
Ma è il soft power l’asso nella manica di Ankara. Dalle serie tv turche, che spopolano nella regione, agli accordi tra università, passando per il proselitismo islamico, la Turchia esercita un crescente appeal sia sui cittadini sia sulle élite (anche militari: nell’ambito della Partnership for Peace della NATO, un certo numero di ufficiali centroasiatici è stato addestrato proprio dai turchi).
A ciò si somma un atteggiamento turco più pragmatico, e meno intriso di grandeur etnica. Il cambio di passo rispecchia lo sviluppo dell’economia turca nell’ultima decade. Ed è coerente con la concezione geopolitica di Davutoglu, fondata su principi come “zero problemi con i vicini”, e attenta al soft power e a un approccio multidimensionale. C’è una buona dose di realismo in tutto questo: in una regione dove si confrontano grandi e medie potenze militari, gli eserciti sono una commodity, più che un asset.
Ciò che la Turchia può offrire ai paesi del Türkistan sono capitali, know-how tecnologico ed eccellenti porti sul Mediterraneo. In cambio punta ad accedere ai mercati della regione (circa 70 milioni di persone culturalmente affini) e soprattutto ad avere un ruolo di rilievo nel risiko energetico del Caspio. L’economia turca ha fame di idrocarburi, e Ankara vuole diventare un hub energetico; ne sono una prova l’oleodotto BTC, che porta il greggio da Baku al porto mediterraneo di Ceyhan, e il TANAP, gasdotto in costruzione che entro il 2018 dovrebbe convogliare il gas azero in Turchia.
Ancora, la cooperazione tra la Turchia e i paesi della regione è diventata, nel corso degli anni, sempre più strutturata e multilaterale. Oltre al TÜRKSOY, sorta di UNESCO turcofona, dal 2009 esiste il Consiglio turco, organizzazione intergovernativa di cui fanno parte Azerbaigian, Kazakistan, Kirghizistan e Turchia. Fondato sui pilastri di un linguaggio e una cultura comuni, il Consiglio vuole ampliare la cooperazione tra i paesi membri in settori come l’economia, le dogane, la scienza. Collegati al Consiglio vi sono poi altri enti quali l’Assemblea parlamentare dei paesi turcofoni, l’Accademia turca, il Consiglio turco per il business. E negli ultimi tempi si è anche parlato di lanciare un canale d’informazione turcofono.
In ogni caso, l’influenza turca nella regione incontra ostacoli significativi. Il primo, nota Hale, è “la Russia, di nuovo potenza dominante nella regione, sia dal punto di vista economico, sia militare e politico. Sta poi emergendo la Cina come rilevante attore regionale”. Per Morgan Y. Liu, esperto della regione e docente di antropologia alla Ohio State University, “la Turchia è ancora coinvolta in Asia centrale, però l’euforia di una relazione speciale è in gran parte svanita”. Ma non è detta l’ultima parola. “Il Kazakistan e l’Uzbekistan hanno leader anziani, e ci potrebbero essere dei cambiamenti con l’arrivo al potere della nuova generazione – dice Hale – Resta poi da vedere se i prezzi bassi del petrolio genereranno una crisi economica in Russia, riducendo l’influenza regionale di Mosca”.
Grazie ai suoi storici rapporti con gli stati turcici della regione, Ankara gioca un ruolo cruciale in uno dei risiko energetici e geopolitici più importanti del mondo.
Quando, nel dicembre del 1991, l’Urss cessò ufficialmente di esistere, ad Ankara si festeggiò. Di fronte alla Repubblica turca si spalancavano praterie (anzi: steppe) di opportunità nell’Asia centrale post-sovietica. “Il prossimo secolo sarà un secolo turco” vaticinava nel 1992 l’allora presidente Turgut Özal. Questo “nuovo mondo” entusiasmava, in particolare, i nazionalisti: l’antico sogno del movimento pan-turco di liberare i “turchi prigionieri” del Türkistan russo, e creare un grande spazio comune tra il Mediterraneo e la Cina, era a portata di mano.