La Turchia è stato un solido alleato degli Stati Uniti fin dal termine della Seconda Guerra Mondiale quando, in osservanza della dottrina Truman, ad Ankara furono garantiti ingenti forniture economiche e militari in ottica anti-sovietica. Dal 1952 è un membro della Nato e ad oggi è il suo secondo esercito più vasto, proprio dopo quello americano. La guerra in Siria tuttavia sta logorando i rapporti tra i due Paesi, che nella regione portano avanti agende e priorità diverse.
Per Washington l’obiettivo principale da conseguire in Siria è la distruzione dello Stato Islamico. Per Ankara è impedire che i curdi siriani (specie il Pyd, il partito marxista collegato al Pkk curdo-turco) riescano a ottenere il controllo prima e l’indipendenza poi sulla Rojava, il territorio che i curdi rivendicano come proprio e che si estende lungo quasi l’intero confine turco-siriano.
Il problema è che al momento i curdi siriani sono l’unica forza di fanteria in grado di fronteggiare vittoriosamente gli uomini del Califfato, come dimostrato dall’impressionante avanzata del 2015 nel nord del Paese. I ribelli sostenuti dalla Turchia si sono rivelati meno efficaci contro l’Isis, molto più interessati ad abbattere il regime di Assad (non una priorità questa per la Casa Bianca, che in assenza di una exit strategy ha sempre rallentato sull’opzione di causare una caduta immediata della dittatura siriana), e spesso si sono alleati con fazioni jihadiste (la qaedista Al Nusra, o i jihadisti di AhrarashSham etc.) considerate dall’Occidente gruppi terroristi. Per questo gli Usa hanno sostenuto con sempre maggiore intensità le formazioni curde, specie l’Ypg – il braccio armato del Pyd –, rifornendole di armi e facilitandone l’avanzata con bombardamenti mirati. La Turchia ha spesso protestato in passato contro questo atteggiamento americano, senza riuscire tuttavia a impedirlo. Nel corso degli ultimi mesi è divenuto evidente come anche la Russia e lo stesso regime di Damasco stiano aiutando i ribelli curdi, ma non senza contropartita. Nelle ultime settimane i curdi si sono scontrati violentemente nel nord della Siria con i ribelli filo-turchi. L’Ypg sta infatti cercando di unificare i territori curdi della Rojava e se arrivando da est ha ancora molte miglia presidiate dallo Stato Islamico da percorrere, quando si è mosso da ovest – dal cantone di Afrin – è subito andato a cozzare contro i ribelli che presidiavano il corridoio che congiungeva direttamente i territori ribelli a nord di Aleppo con la Turchia. Tale corridoio è stato chiuso a febbraio da un blitz del regime di Assad e i curdi ne hanno approfittato per espandersi a danno dei ribelli, conquistando la cittadina di Tall Rifat. Da allora l’artiglieria turca ha iniziato a bombardare pesantemente i cantoni curdi siriani – suscitando le proteste degli Usa – e spesso ha lasciato circolare l’ipotesi di un’invasione di terra.
Questa eventualità è stata da ultimo ridimensionata, con la Turchia che si è detta disponibile a un intervento deciso nell’ambito della coalizione anti-Isis (un’eventualità quindi al momento remota), ma non da sola o con la sola compagnia dell’Arabia Saudita. Ma intanto quello con gli Stati Uniti sembra un dialogo tra sordi. «Gli Stati Uniti stanno facendo pressione sulla Turchia perché fermi i bombardamenti sulle postazioni curde nel nord della Siria ma senza molto successo», spiega Sinan Ulgen, analista esperto di Turchia del Carnegie Europe. «Ankara è determinata a dimostrare il proprio disappunto per l’avanzata territoriale dei curdi. Se continueranno ad avanzare è possibile che ci sia un’escalation nella risposta della Turchia nonostante le pressioni della Casa Bianca. Il problema è che da un lato Washington vorrebbero che Ankara sposasse la sua linea, accettando la collaborazione col Pyd, ma questo è politicamente inaccettabile per il governo turco, che vede il partito curdo siriano come un ramo del Pkk, considerato un’organizzazione terroristica».
In questa frattura tra alleati si è insinuata la Russia. Prima ha esacerbato la tensione con la Turchia, portando Ankara ad abbattere un suo cacciabombardiere che aveva sconfinato (l’ennesimo pare), e poi ha approfittato della situazione conseguente: è emerso chiaramente che la Nato non è pronta a seguire la Turchia in un’avventura siriana, se esce dai suoi confini non ha – anche da un punto di vista della legalità internazionale – il diritto di chiedere l’aiuto degli Alleati; inoltre Mosca ha posizionato in Siria sistemi di contraereaavanzati(S-400) che le hanno garantito la superiorità nei cieli del Paese. Dopo questi progressi sul campo il Cremlino ha anche provato un “colpo gobbo” diplomatico: ha chiesto una convocazione urgente del Consiglio di Sicurezza dell’Onu per chiedere uno stop ai bombardamenti turchi contro i curdi siriani, sperando gli Stati Uniti cedessero alla tentazione di dare un segnale duro a un alleato che negli ultimi tempi pare abbia spesso giocato nella squadra avversaria (addirittura ci sono voci insistenti di un possibile aiuto allo Stato Islamico da parte di Ankara, in funzione anti-Assad e anti-curda). Il blitz russo non è riuscito e il Consiglio di Sicurezza, per via della contrarietà di americani e altri alleati occidentali, ha respinto la proposta. «La mia impressione è che gli Usa abbiano respinto la proposta perché l’hanno subito qualificata come un gioco di potere di Mosca, volto a distrarre l’attenzione dal coinvolgimento russo nella regione, a imbarazzare la Turchia e a creare problemi tra Ankara e Washington», spiega Paul Stronski, esperto americano di ex Urss. «La mossa del Cremlino si spiega anche alla luce del deterioramento dei rapporti tra Russia e Turchia. In generale non penso che fosse dettata da un sincero desiderio di fermare gli spargimenti di sangue nella regione o di aiutare i curdi».
La domanda che ora tutti si pongono è: la condotta della Turchia contro i curdi siriani è potenzialmente in grado di far deragliare la strategia americana di contenimento dello Stato Islamico? «Personalmente non credo», dice ancora Sinan Ulgen. «I bombardamenti turchi si fermeranno nel momento in cui i curdi siriani cesseranno i tentativi di espandere il proprio territorio. Potrebbe quindi essere una dinamica di breve termine, mentre la lotta contro l’Isis è sicuramente di lungo». Guardando alla cartina del nord della Siria è tuttavia chiaro quanto i curdi siriani siano vicini a unificare i propri territori. Inoltre la maggior parte – se non la totalità – delle zone che dovrebbero liberare sono in mano all’Isis. Pare molto probabile a numerosi analisti che la leadership curda decida di tentare di raggiungere il proprio obiettivo secolare: l’unificazione e l’autonomia (se non l’indipendenza) di uno Stato Curdo. La conquista di Raqqa – la capitale dello Stato Islamico – è sicuramente meno importante per il Pyd e così come la Casa Bianca non riesce a costringere i turchi ad abbandonare il proprio interesse strategico – evitare la nascita del Kurdistan alle proprie porte – allo stesso modo è dubbio che ci riesca coi curdi.
Questa dinamica esplosiva getta delle ombre preoccupanti anche sulla tregua che in Siria dovrebbe scattare il 27 febbraio. Già debole alla nascita – molti dei gruppi jihadisti esclusi dal cessate il fuoco sono alleati, talvolta mescolati, con gruppi ribelli “moderati” o filo-turchi – la tregua è stata ulteriormente azzoppata dalle dichiarazioni del governo turco, che ha annunciato di volersi tenere le mani libere per rispondere a eventuali attacchi da parte dei curdi. Molti analisti si chiedono che atteggiamento prenderà Ankara se i curdi siriani approfittassero della tregua per attaccare l’Isis al confine con la Turchia – conquistando Manbij, Al Bab e Dabiq (v. cartina) -, ignorando i ribelli filo-turchi e congiungendo, anche se solo per un sottile lembo di terra, i propri cantoni. Il rischio di un’ulteriore escalation in una regione dove si stanno ammassando decine di migliaia di profughi – Ankara li fa entrare col contagocce, secondo alcuni usandoli cinicamente come “scudi umani” contro possibili azioni dei curdi – è molto alto e gli Stati Uniti hanno dimostrato di non poter (o non voler) costringere gli attori regionali a seguire la propria agenda.
La Turchia è stato un solido alleato degli Stati Uniti fin dal termine della Seconda Guerra Mondiale quando, in osservanza della dottrina Truman, ad Ankara furono garantiti ingenti forniture economiche e militari in ottica anti-sovietica. Dal 1952 è un membro della Nato e ad oggi è il suo secondo esercito più vasto, proprio dopo quello americano. La guerra in Siria tuttavia sta logorando i rapporti tra i due Paesi, che nella regione portano avanti agende e priorità diverse.
Per Washington l’obiettivo principale da conseguire in Siria è la distruzione dello Stato Islamico. Per Ankara è impedire che i curdi siriani (specie il Pyd, il partito marxista collegato al Pkk curdo-turco) riescano a ottenere il controllo prima e l’indipendenza poi sulla Rojava, il territorio che i curdi rivendicano come proprio e che si estende lungo quasi l’intero confine turco-siriano.