A ogni giro di boa l’Iran si conferma Paese difficile impossibile da ingabbiare nelle griglie tradizionali dell’analisi politica. Paese di contraddizioni e di sorprese. Lo confermano due fatti recenti, che appunto si prestano a una doppia lettura.
Il primo è l’esito finale delle elezioni politiche. Il primo turno (26 febbraio) aveva così spartito i 290 seggi del Parlamento iraniano: 83 a moderati e riformisti direttamente collegabili al presidente della Repubblica Rouhani e all’ex presidente della Repubblica (ed ex presidente dell’Assemblea degli Esperti) Rafsanjani; 64 ai conservatori; 55 agli indipendenti. Nell’euforia del fresco accordo sul nucleare tra il Cinque più Uno (i cinque Paesi del Consiglio di sicurezza Onu, cioè Usa, Russia, Gran Bretagna, Cina e Francia, più la Germania per la Ue) e l’Iran di Rouhani, il voto fu letto anche in Occidente come un trionfo dei riformatori.
Avremmo dovuto usare un po’ più di prudenza. In primo luogo perché il posizionamento politico degli indipendenti è per sua natura imprevedibile. E poi perché i seggi rimasti fuori dal conteggio, corrispondenti ad altrettante circoscrizioni in cui nessun candidato era riuscito a ottenere almeno il 25% dei voti, dovevano essere assegnati in un secondo turno, svoltosi poi il 29 aprile. Alla fine di tutti i voti e di tutti i conteggi, la situazione è questa: Lista della Speranza (Rouhani e riformisti), 121 seggi; la Grande Coalizione (conservatori) 83 seggi; la Coalizione Voce del popolo (conservatori moderati) 11 seggi; indipendenti 65; candidati sostenuti sia dalla Lista della Speranza sia dalla Grande Coalizione, 3 seggi; minoranze religiose, 5 seggi (riservati a prescindere dal voto). Con un tratto forte per quanto riguarda il fronte dei riformisti: 18 donne sono state elette al Parlamento (contro le sei del Parlamento precedente) e tutte sono schierate con il Presidente. La più giovane è Fatemeh Sayedeh Hosseini, 30 anni, eletta a Teheran, dottoranda in Scienze della Finanza, che ha fatto tutta la campagna elettorale sul tema della disoccupazione giovanile tra le donne, che raggiunge il 45%.
Come si vede, la situazione di fondo non è cambiata rispetto al primo turno. Anzi. Rouhani e i suoi hanno certo ottenuto un bel successo ma le speranze di cambiare il corso della politica iraniana restano sempre legate agli umori variabili degli indipendenti. In altre parole, Rouhani dovrà guadagnarsi i voti del Parlamento di volta in volta, di provvedimento in provvedimento. Tenendo conto che gli indipendenti sono stati eletti, in maggioranza, in circoscrizioni esterne alle grandi città, cioè in quelle dove gli umori politici sono in genere più conservatori, difficilmente Rouhani potrà permettersi scossoni troppo forti. E dovrà pure mostrare un qualche rispetto per il complesso intreccio politico-economico che in questo quarto di secolo si è sviluppato all’interno della società iraniana. Statistiche precise non ce ne sono, ma si dice che i pasdaran (il cui comandante è la Guida Suprema Alì Khamanei) controllino ormai circa il 40% dell’economia iraniana. Sono, per dirne una, i “padroni” della telefonia cellulare: difficile che Rouhani possa aprire più di tanto questo settore alle leggi del mercato o alle tanto auspicate collaborazioni con le aziende occidentali.
Proprio legato all’andamento economico è il secondo fatto di cui, come dicevamo, è possibile una duplice lettura. Alla fine dell’anno fiscale 2015-2016, scaduto a marzo, il Governo ha annunciato che per la prima volta dalla Rivoluzione islamica del 1979 la bilancia commerciale, petrolio escluso, è andata in attivo: esportazioni per 42,4 miliardi di dollari e importazioni per 41,5 miliardi. Solo 900 milioni di differenza, che però hanno spinto il presidente Rouhani a esaltare il risultato e a lodare “l’unità del popolo” che tanto avrebbe contribuito a produrlo. Inutile dire che gli spin doctor di Rouhani hanno fatto di tutto per presentare il presunto successo come l’esito di una duplice forza nazionale: da un lato, l’orgogliosa resistenza alle “inique sanzioni” decise dagli Usa e da gran parte della comunità internazionale; dall’altro, la razionale decisione di siglare il trattato sul nucleare con il Cinque più Uno.
Resta da decidere, però, se di vero successo si tratti. Quei 900 milioni di attivo sono in realtà il prodotto di un duplice calo: il meno 22,5% delle importazioni e il meno 16,1% delle esportazioni. Due tratti che schizzano il quadro di un’economia in piena contrazione, in cui l’esito positivo sembra più frutto del caso che della programmazione. Molti esperti, inoltre, fanno notare che il calo delle importazioni non ha toccato tanto i generi di lusso o di consumo quanto piuttosto settori come le materie prima o le meccanica, ovvero contributi essenziali al buon funzionamento della macchina produttiva nazionale. Non a caso, proprio quei generi che l’Iran, grazie alle nuove aperture derivate dall’abolizione delle sanzioni, sta freneticamente cercando di procurarsi in Europa.
Senza contare che, per quanto riguarda i generi di consumo, il calo delle importazioni ha offerto largo spazio a un altro genere di impresa economica: il contrabbando. Secondo i dati forniti dalla task force anti-contrabbando istituita dall’Autorità Suprema, l’ayatollah Alì Khamenei, nel 2002, nell’anno fiscale 2013-2014 sono entrati illegalmente in Iran beni per 25 miliardi di dollari, con enormi perdite per le casse dello Stato.
A far la parte del leone sono le sigarette (quasi 4 miliardi il valore delle importazioni illegali), i telefoni cellulari (2 miliardi; pare che l’85% dei cellulari attivi in Iran sia arrivato nel Paese col contrabbando), i cosmetici (1 miliardo, l’Iran è il settimo Paese al mondo per consumo di cosmetici), gli alcolici e le droghe (3 miliardi).
Messi nel frullatore, questi dati offrono al presidente Rouhani e al suo Governo una bibita di difficile digestione. Bisognerà far ripartire l’economia a dispetto dei blocchi interni (ora che i blocchi esterni non ci sono più), senza scuotere troppo il conservatorismo politico ancora forte e cercando di soddisfare la voglia di consumare e di vivere di una popolazione che da un quarto di secolo è costretta al sacrificio quando non alla mortificazione. Il tutto con il Medio Oriente nelle condizioni in cui è. Un rebus da risolutori esperti.