La macchia indelebile che con ogni probabilità il primo ministro indiano Narendra Modi si porterà addosso per tutta la sua vita – politica e non – risale a 14 anni fa, quando nel «suo» Gujarat esplosero pogrom contro la comunità musulmana in risposta a un attentato a un treno carico di pellegrini hindu. Le vittime, in pochi giorni, secondo le stime non ufficiali si aggirarono intorno al migliaio di persone, in gran parte musulmani trucidati da squadroni hindu in combutta con la polizia.
Un episodio in particolare è rimasto impresso nella memoria collettiva, passato alla storia come il massacro della Gulberg Society, la «gated community» di Ahmdebadad dove risiedeva Eshaan Jafri, deputato dell’Indian National Congress (Inc) che, durante le violenze, aveva ospitato entro le mura della propria abitazione decine di musulmani, sicuro che le forze dell’ordine – grazie ai suoi contatti politici – lo avrebbero difeso. Ne risultò una carneficina, con oltre 60 persone sventrate e bruciate nonostante gli appelli di Jafri.
Due giorni fa, dopo 14 anni di indagini, processi sospesi e riaperti e cambi di giudici, è arrivata la prima sentenza sul caso Gulberg Society: 24 condannati, 36 assolti, tra cui Bipin Patel, l’unico indagato iscritto a un partito politico: il Bharathiya Janata Party (Bjp) di Narendra Modi.
Alla sentenza è seguita una serie di reazioni indignate della stampa, in particolare riportando lo sconforto di Zika Jafri, vedova di Eshaan Jafri, che da anni ha lottato dentro e fuori i tribunali nel tentativo di vedere alla sbarra non solo i «pedoni» delle milizie ultrahindu, ma anche chi ha architettato e chi ha semplicemente osservato l’ondata di violenze in cui suo marito, assieme a centinaia di musulmani, perse la vita.
Tra i principali accusati figuravano i nomi di alte cariche della Vishwa Hindu Parishad (Vhp) e del Bajrang Dal locale, due sigle dell’ultrainduismo considerate a cavallo tra l’attivismo religioso e il braccio violento dell’estremismo hindu, capace di mobilitarsi seguendo le campagne d’odio più o meno funzionali alla retorica dell’identitarismo hindu della destra indiana. La maggior parte dei nomi non è nemmeno finita a processo, causa «mancanza di prove», come del resto la posizione dello stesso Modi è stata stralciata dalle indagini dopo un interrigatorio della cellula investigativa speciale (Sit), condotto nel 2010.
Nel caso specifico della Gulberg Society, Modi – assieme al ministero degli interni del Gujarat e ai vertici della polizia – era accusato di non aver preso alcuna iniziativa per sedare le violenze, pur avendone avuto notizia in tempo reale. Diversi testimoni, racconta Siddharth Varadarajan (direttore di The Wire), hanno sostenuto davanti ai giudici che Eshaan avesse tentato più volte di parlare con l’ufficio del chief minister (cioè di Modi), con gli interni e con il capo della polizia, chiedendo che venissero inviati dei rinforzi fuori da casa sua, dove la situazione stava precipitando.
Uno dei testimoni, riporta sempre , avrebbe sentito Eshaan dire di essere riuscito a parlare con Modi (non è chiaro se con lui personalmente o col suo ufficio) che, alla richiesta di aiuto, avrebbe risposto con «insulti».
Nell’interrogatorio con la Sit, Modi avrebbe poi dichiarato: «Per quanto concerne questo aspetto, vorrei aggiungere che nessuna telefonata è stata ricevuta da me». Parole, secondo Varadarajan, che avrebbero messo al sicuro Modi da ogni ipotetica responsabilità personale, considerando che l’ex chief minister del Gujarat, in quell’occasione, ricevette una cosiddetta «clean chit»: non ci sono elementi per procedere con la formulazione di un’accusa.
A gettare ombre di insabbiamento sul caso si aggiungono i capi d’accusa per i quali 24 imputati sono stati giudicati colpevoli: c’è omicidio, rogo doloso e disordini. Non c’è associazione a delinquere, segno che per la legge indiana i 64 morti della Gulberg Society non sono state vittime di un disegno politico che ha visto la partecipazione – passiva – anche delle forze dell’ordine.
A meno di un chilometro dalla residenza di Eshaani c’era una stazione di polizia, alla quale furono fatte diverse chiamate.
I primi uomini in divisa arrivarono sei ore dopo, quando la Gulberg Society era già un ammasso di cadaveri carbonizzati e rovine in fiamme.
@majunteo
Un episodio in particolare è rimasto impresso nella memoria collettiva, passato alla storia come il massacro della Gulberg Society, la «gated community» di Ahmdebadad dove risiedeva Eshaan Jafri, deputato dell’Indian National Congress (Inc) che, durante le violenze, aveva ospitato entro le mura della propria abitazione decine di musulmani, sicuro che le forze dell’ordine – grazie ai suoi contatti politici – lo avrebbero difeso. Ne risultò una carneficina, con oltre 60 persone sventrate e bruciate nonostante gli appelli di Jafri.