L’incontro è in un hotel di Tunisi che dà su quello che può essere considerato il corrispettivo degli Champs Elysée della città, avenue Bourghiba. Seduto in una poltrona della hall c’è Mohamed Iqbel Ben Rejeb, presidente di RATTA, Rescue Association of Tunisians Trapped Abroad Association, che continua ad osservare chi entra e chi esce. Assieme a lui, il padre del jihadista deceduto in Iraq.
Il figlio di quest’ultimo, Walid, è partito per l’Iraq nel 2013. Suo padre non sa per quale organizzazione sia andato a combattere. Dopo due mesi dalla sua partenza, Mohamed, così si chiama quest’uomo, ha ricevuto una telefonata da un numero sconosciuto. Dall’altra parte del telefono una voce che non aveva mai sentito gli annunciava che suo figlio era diventato uno “shahid”, ossia un martire.
«Walid non aveva mai dato segni di voler partire, né tantomeno di essersi radicalizzato. Al contrario di molti altri giovani tunisini, lui aveva un lavoro. Non è stato l’unico a partire. Dove vivo ci sono ancora dei reclutatori e dei salafisti».
L’uomo viene da Sejnane, nel nord del paese, che è stata definita il primo emirato salafista della Tunisia, dove un centinaio di integralisti dettano legge. Almeno ottanta uomini sono partiti da questa città, ma la maggior parte è morta.
Mohamed è stato minacciato più volte per il suo impegno e le pressioni che ha fatto contro questi reclutatori. Minacce arrivate anche direttamente dall’Iraq via sms.« Non sono l’unico in questa situazione, ma non possiamo contare che su noi stessi. Le autorità sono poco presenti».
Almeno 700 tunisini, sui circa 3000 partiti, sarebbero ritornati,. Questo dato ha reso il paese il più grande esportatore di foreign fighters al mondo. Molti sono andati in Iraq e in Siria, altri hanno raggiunto Ansar al Sharia in Libia.
La maggior parte si è radicalizzata grazie ad imam e personaggi che durante il regime di Ben Ali erano rimasti ai margini, ma che una volta rovesciato hanno potuto ritagliarsi un loro spazio e estendere la loro influenza su molti giovani tunisini sbandati e senza futuro, ma anche borghesi e istruiti.
In questo contesto si inserisce RATTA. Mohammed Iqbel Ben Rejeb ha cominciato la sua battaglia perché colpito personalmente da questa situazione. «Mio fratello è uno di questi foreign fighters. Per fortuna, è tornato ed è riuscito ad reintegrarsi.»
L’associazione nasce proprio dopo il ritorno del fratello di Mohamed dalla Siria nel 2013. «Molti genitori e parenti mi hanno cercato, dopo che il mio caso è diventato d’interesse nazionale. Abbiamo perciò deciso di mettere assieme le forze per riportare a casa i nostri cari, puntando tutto sulla deradicalizzazione»
L’associazione fornisce molti tipi di supporto, sia legale sia morale, sia alle famiglie sia ai diretti interessati. In genere si occupa di mettersi in contatto con coloro che sono già sul campo e di trovare un modo per riportarli indietro. Mohamed racconta di come sia riusciti a far tornare un combattente dalla Siria :«Gli abbiamo fatto credere che suo padre fosse molto malato e che sua moglie potesse commettere atti d’infedeltà. So che è tornato e spero solamente che non sia in carcere.»
Purtroppo, l’associazione deve far fronte a molti limiti, che non le consentono di agire appieno. «Qui nessuno è pagato e non è facile combinare il lavoro con quest’attività. Non abbiamo ancora un ufficio e le nostre disponibilità sono limitate. In genere ci si ritrova in un caffè e molte delle nostre attività prevedono sit-in e manifestazioni davanti ai ministeri.»
Rivela di come molti di questi foreign fighters siano in realtà dei ragazzi inesperti e ingenui, che si pentono poco dopo essere arrivati nelle zone di guerra. La sua opinione è che molti di questi ragazzi siano recuperabili. «È come un cancro. Questi giovani non sono alla fase terminale, dove niente può essere recuperato, ma all’inizio, quando la metastasi non è ancora iniziata.» Il supporto psicologico, come quello impiegato per curare i veterani delle nostre guerre, sarebbe una delle risposte a questa problema, unito a un processo di deradicalizzazione.
Questo è il contrario di quello che le autorità tunisine stanno facendo. Molti di quelli ritornati in Tunisia sono finiti in galera, dove hanno subito molti abusi e la loro alienazione non ha fatto che crescere. Per Mohamed, questo genere di misure sono controproducenti, visto che non prevedono alcun tipo di supporto per questi giovani che hanno intrapreso una strada sbagliata. «Non esiste una strategia a lungo termine per combattere questa mentalità . Lo stato si limita a uccidere e imprigionare.»
Proprio l’attitudine delle autorità impedisce di affrontare il problema in maniera corretta. Il governo, che da una parte propone misure troppo repressive, orientate solo a punire coloro che sono partiti, non tocca chi sta dietro e muove i fili.
Nel 2015, dopo gli attentati del museo del Bardo e quello sulle spiagge di Sousse, il governo ha implementato una nuova serie di leggi mirate alla lotta al terrorismo. Esse prevedono arresti arbitrari e una stretta sorveglianza sui sopsetti e color che sono tornati.
Mohamed punta il dito contro i personaggi pubblici che incitano alla Jihad e anche contro i reclutatori :«Sono loro i veri terroristi, che guadagnano sulla vita di giovani senza speranze. L’Isis paga i reclutatori a secondo delle capacità delle capacità e dell’istruzione del soggetto. I giovani laureati e con esperienza tecnica in settori utili sono ricercati come in n una qualsiasi azienda.»
L’Europa non è esente da critiche perché «anche lei si è limitata ad azioni militari, senza cercare di distruggere ed estirpare questa ideologia. Alcune associazioni sono nate in paesi come Francia e Danimarca, a cui ci ispiriamo noi stessi. Ma sono un’eccezione ,piuttosto che la regola»
L’incontro è in un hotel di Tunisi che dà su quello che può essere considerato il corrispettivo degli Champs Elysée della città, avenue Bourghiba. Seduto in una poltrona della hall c’è Mohamed Iqbel Ben Rejeb, presidente di RATTA, Rescue Association of Tunisians Trapped Abroad Association, che continua ad osservare chi entra e chi esce. Assieme a lui, il padre del jihadista deceduto in Iraq.
Il figlio di quest’ultimo, Walid, è partito per l’Iraq nel 2013. Suo padre non sa per quale organizzazione sia andato a combattere. Dopo due mesi dalla sua partenza, Mohamed, così si chiama quest’uomo, ha ricevuto una telefonata da un numero sconosciuto. Dall’altra parte del telefono una voce che non aveva mai sentito gli annunciava che suo figlio era diventato uno “shahid”, ossia un martire.