I sassi di Scicli
Le grotte, le chiese, le cave, i costoni rocciosi. La pietra bianca, i palazzi barocchi, le strade di basolati, i pavimenti di maioliche, le casette addossate, i balconi in ferro e teste di mostri. E poi i fichi d'india, gli ulivi, i carrubi, le agavi, gli arbusti di capperi e lentisco. Le campane che scandiscono le ore. Le granite, le brioches, la pasta all'uovo cotta nel macco di fave e pesto di finocchietto.
Quello di Scicli è un territorio dove le tracce delle epoche storiche si sovrappongono e compongono in una stratificazione senza soluzione di continuità, ma perfettamente riconoscibile, che dal secondo millennio avanti Cristo arriva ai nostri giorni. La pietra tenera dei costoni rocciosi infatti, già erosa dai corsi d'acqua in ampie “cave” (vallate strette e profonde), in età preistorica viene scavata dall'uomo per farne sepolture, e diventa rifugio abitato nel periodo delle invasioni arabe. Nell'VIII secolo infatti, con la conquista musulmana dell'Africa settentrionale e l'intensificarsi delle incursioni musulmane sulle coste siciliane, la pericolosità delle zone costiere spinge la popolazione a spostarsi verso l'entroterra, in un fenomeno di incastellamento che alla protezione naturale delle alture aggiunge la costruzione di strutture difensive. Come a Matera e in molte altre aree mediterranee e diffusamente sull'altopiano ibleo, si costruisce per sottrazione: togliendo e articolando lo spazio scosceso della roccia attraverso piccoli terrazzamenti, coltivati con alberi da frutto.
Nei secoli l'abitato progressivamente scende a valle e la ricchezza agricola, tradotta in rendita da una chiesa sempre più potente, dà vita alla città monumentale barocca. É una città del sacro, che segna con grandi chiese e conventi (spesso costruiti sopra le vecchie fortificazioni) le cime dei costoni rocciosi così come i punti cardine della valle, le strade verso Siracusa, Modica, Ragusa e il mare: la Croce, San Matteo, il Rosario, e poi San Bartolomeo e Santa Maria La Nova, sono allo stesso tempo i nomi delle chiese e delle aree abitate. Ma non tutti gli abitanti scendono a valle, restano, inerpicati sul colle di San Matteo, gli “aggrottati” di Chiafura, che continueranno ad abitare la montagna fino a quando nel '59 la sezione locale del Partito Comunista che amministrava la città, inviterà qui un gruppo di intellettuali romani (Renato Guttuso, Carlo Levi, Pier Paolo Pasolini), per sollevare la questione Chiafura. L'azione politica proseguirà, sotto la spinta di un vero e proprio movimento di lotta per la casa, con la costruzione di un quartiere di case popolari dove spostare la popolazione.
Lo spostamento non è facile, c'è chi la notte torna a dormire sul monte, c'è chi usa la vasca da bagno come mangiatoia per gli animali (intasando le tubature), soprattutto, la nuova vita urbana mette in crisi i rapporti di comunità che caratterizzavano la vita di Chiafura. Ma Chiafura era anche la vergogna, il segno di un paese che aveva portato con sé un abitare primitivo resistente alla modernità. E in breve tempo, diventa una memoria da cancellare. Per un po', un margine in abbandono per le esplorazioni degli adolescenti. Oggi, una zona sconosciuta alla nuova generazione, chiusa da cancelli che cercano di limitarne la visita per il pericolo di frane e di crolli nelle grotte puntellate.
Ma nel rinascimento di un paese invaso da turisti sulle orme del barocco siciliano e del commissario Montalbano, comincia a farsi sentire un bisogno di re-interpretazione di quest'area che, con la sola discontinuità di un muro di contenimento costruito per mettere in sicurezza le pendici dell'abitato, lega l'abitare ai tempi delle tecnologie di rete ad un abitare antico, essenziale, profondamente radicato nella natura del luogo e in una dimensione di comunità. Passeggiando dentro Chiafura, riemergono ricordi di una città diversa, di una Scicli precedente la copertura dei due torrenti (alla fine degli anni Settanta), quei torrenti che così fortemente hanno caratterizzato la forma dell'abitare e sulle cui sponde erano stati costruiti i palazzi nobiliari. Una città in cui le strade erano spazio pubblico: spazio di sosta per chi tornava dal lavoro e metteva fuori le sedie per chiacchierare, spazio di gioco per i bambini con il pallone o i “pupi” (le bambole), ma anche spazio di feste, per ricorrenze particolari, e di cucina e tavolate all'aperto.
Da almeno due decenni la città cresce e si trasforma grazie ad un doppio movimento “migratorio”. Quello dei braccianti di origine nord africana ed est europea, attivi nella agricoltura in serra (che rappresenta la ricchezza di questa zona di campagna siciliana), e quello dei signori veneti, toscani e in generale del nord, che comprano e ristrutturano seconde case che amano vivere per periodi sempre più lunghi dell'anno. A questo doppio movimento si aggiunge il flusso turistico generato dall'esposizione mediatica.
E poiché Chiafura, o il colle di San Matteo, è nell'immaginario collettivo il simbolo della città, sembra arrivato il tempo di ricollegarlo, riconquistarlo alla città: è tempo di aprire i cancelli e di integrare parco archeologico e città.
Questo articolo nasce da un laboratorio di scrittura che l'autrice Maria Luisa Palumbo ha coordinato a Scicli tra l'1 e il 2 settembre scorsi, qui una serie di ulteriori scritti di approfondimento elaborati nel corso del laboratorio: https://paesaggisensibili.com/2016/09/02/scicli-storie-di-spazi/