Hariri e Aoun sono le due “novità” della politica libanese. L’elezione del Presidente Cristiano Maronita e la nomina a Premier del leader del Movimento Futuro sono stati il frutto dello stesso compromesso. I due ruoli hanno intrapreso però due strade diverse, con uno stesso obiettivo. Michel Aoun rappresenta la continuità.
Il suo fine politico è riposizionare il Libano all’interno dello storico binomio Arabia Saudita/Iran. Nei mesi precedenti all’elezione dell’ex Generale, la Nazione stava vacillando pericolosamente verso Tehran, tradendo il suo stesso status di bilancia nell’influenza esterna. Gli attriti tra Ryad e Hariri, il taglio del budget verso il Libano, le accuse ad Hezbollah e l’invito ai cittadini sauditi di lasciare il paese erano i sintomi di un male che avrebbe potuto determinare conflitto sociale. Anche lo stesso Hezbollah era conscio dell’importanza di mantenere la struttura costituzionale libanese all’interno del dualismo tra le due potenze regionali Medio orientali. Il nervosismo sunnita necessitava di una diga.
Il compromesso, con cui si è arrivati all’elezione del Presidente della Repubblica, è nato dalla necessità di riportare il paese nel giardino delle certezze. Il Libano, come tutti le nazioni dell’area, sta risentendo degli sbalzi termici geopolitici avvenuti negli ultimi cinque anni. Il dualismo Russia/Stati Uniti ha creato nuove dinamiche nelle sfere d’influenza. In quest’ottica i recenti colloqui di Aoun con Arabia Saudita, Qatar e EAU sono stati un successo. Ryad ha confermato l’intenzione di erogare il suo contributo all’esercito libanese di 4 miliardi di dollari, sbloccando così la fornitura di armi provenienti da Parigi. Il Partito di Dio non si è opposto. Hezbollah, Iran e Arabia Saudita sono ben consapevoli del fatto che questo movimento di armi non altera in alcun modo il rapporto di forza esistente nel paese. La milizia sciita continua a mantenere una superiorità in termini di preparazione e mezzi, ma paga lo scotto della sua reputazione. Se da una parte intorno ad Hezbollah si è creata una sorta di leggenda militare, dopo la resistenza del 2006, garantendo così un freno a possibili nuove invasioni israeliane, dall’altra parte questo alone rappresenta un pericolo per la comunità sunnita, sospettosa delle intenzioni del Partito di Dio. I 4 miliardi sono quindi un segnale, più che un reale tentativo di riequilibrare la potenza di fuoco. Ryad con questa mossa ha confermato in modo sostanzioso il suo appoggio alla comunità sunnita e rinsaldato i legami con Saad Hariri, in parte sfiduciato durante il 2016.
Se Aoun è il protettore dell’equilibrio internazionale, Hariri è il garante della pax interna. Il leader del Movimento Futuro è colui che dovrà incanalare le spinte sociali, giungendo ad un compromesso accettabile per le parti in causa. Il bene ultimo rimane la preservazione dello status quo. La coperta è corta e la discussione sulla legge elettorale ne è la sintesi perfetta. Saad Hariri dovrà riuscire nell’impresa di far accettare il cambiamento a quei partiti, come il Socialista Progressista del druso Jumblatt, restii a perdere seggi all’Assemblea Nazionale. Attualmente in Libano si vota con un maggioritario secco. Il paese è diviso in circoscrizioni, ciascuna delle quali è sinonimo di omogeneità confessionale del territorio. Questo avvantaggia la rappresentanza di tutte le formazioni politiche/religiose, ma crea un ostacolo a formazioni laiche con un elettorato spalmato su tutto il territorio nazionale. I due estremi sono rappresentati da Hezbollah, fervente sostenitore di un proporzionale con collegio unico a livello nazionale, e i Drusi di Jumblatt a favore dello status quo. In mezzo a queste posizioni antitetiche, Hariri potrebbe trovare un nuovo e interessante compromesso: il mix. Una percentuale dei seggi dell’Assemblea Nazionale, quasi sicuramente la minoranza, potrebbero essere scelti con un sistema proporzionale, mentre la restante parte con il sistema attuale. Tutti vincono, nessuno perde. Vince Hezbollah perché è portavoce delle istanze sociali, vince Hariri perché è l’uomo capace di traghettare il paese nel momento del bisogno, vincono i Cristiano Maroniti che hanno trovato un discendente accettabile di Michel Aoun, vince Jumblatt perché ha resistito ai grandi partiti e vincono gli outsider perché potrebbero inserirsi nel contesto istituzionale. Pax raggiunta, o almeno per il momento.
Il tentativo dell’establishment di traghettare il dissenso politico in Parlamento con le stesse dinamiche con cui si svolge la cosa pubblica è un’arma a doppio taglio. Se nel presente il compromesso potrebbe essere acqua sul fuoco, nel futuro, senza un piano volto assicurare welfare alle fasce più deboli e a potenziare le infrastrutture, il conflitto sociale potrebbe riaccendersi con maggiore forza. Il Libano rimane un paese con una forte disuguaglianza e un’economia fatiscente. Il sistema clientelare è la base dei rapporti sociali, ma le spinte dal basso per una reale mobilità sociale e la disaffezione cronica per la politica hanno aperto una faglia che difficilmente si richiuderà a meno di un lavoro progettuale incentrato sui bisogni pratici della popolazione. Persiste poi un’intensa corruzione capace di creare una pratica che spesso si sovrappone all’entità statale. Insomma il Libano rimane un paese sull’orlo di una crisi di nervi.