James «Mad Dog» Mattis, segretario della difesa statunitense, è atterrato ieri a Tokyo e ha incontrato il primo ministro Shinzo Abe. Il principale obiettivo della visita? Smentire il suo stesso presidente, Donald Trump.
Alla sua prima missione diplomatica da capo della difesa statunitense, Jim Mattis si è rivelato tutto il contrario del suo soprannome. Lo chiamavano «cane pazzo», ora toccherà inventarsi qualcosa di nuovo, magari più contenuto — per esempio, «cane avveduto». Perché moderato e pragmatico è stato il suo approccio nel corso della sua tre giorni tra Corea del Sud e Giappone. Dopo gli strilli dell’attuale presidente Usa Donald Trump contro i due principali alleati di Washington in Nordest asiatico accusati di «avvantaggiarsi» economicamente della protezione militare statunitense, Mattis ha mantenuto un tono rassicurante e anzi si è fatto promotore di una maggiore cooperazione di sicurezza trilaterale.
A tutela dello status quo
Niente colpi di testa, quindi, lo status quo rimane. Addirittura Mattis ha lodato il Giappone descrivendolo come un alleato «modello» per quanto riguarda la condivisione dei costi dell’alleanza militare tra i due paesi, un esempio, insomma, per tutti quei paesi che in gergo vengono definiti «free rider» e che la stessa amministrazione Obama aveva cercato di mettere in riga.
«L’alleanza tra Stati Uniti e Giappone è un fattore critico nel garantire la sicurezza della regione, non solo ora ma ancora per anni a venire», ha detto Mattis durante una conferenza stampa con la sua controparte giapponese Tomomi Inada. Mattis ha poi dato il suo ok al processo di rafforzamento militare — il governo di Tokyo ha da poco approvato il budget per la difesa più alto dal dopoguerra — e alla «normalizzazione» legale delle Forze di autodifesa giapponesi favorito dall’amministrazione Abe a partire dalla fine del 2012. «Con la crescita della nostra alleanza, sarà importante per entrambe le nostre nazioni continuare a investire in personale e capacità di difesa», ha aggiunto Mattis.
Parole naturalmente poco gradite a Pechino dove non è piaciuto in particolare il rinnovo dell’impegno americano a difendere le isole Senkaku/Diaoyu, contese tra Giappone e Cina.
Le truppe americane non lasceranno Okinawa
Naturalmente il mantenimento dello status quo significa che niente cambierà nemmeno ad Okinawa, dove si concentra gran parte del dispiegamento militare americano in Giappone contro cui da anni la popolazione locale protesta. Di recente nuove proteste hanno infiammato l’isola, rivelando anche episodi di discriminazione della polizia giapponese contro alcuni manifestanti etichettati come «indigeni» o «sporchi cinesi».
Il caso di Henoko, località sulla costa orientale dell’isola principale dell’arcipelago a sud del Giappone è però il più esemplare. Qui, a poca distanza da una riserva naturale, il governo giapponese vuole spostare parte delle strutture e degli uomini dell’esercito Usa dalla base aerea di Futenma, altro luogo simbolo della difficile convivenza tra popolazione locale ed militari statunitensi, ampliando una struttura già esistente con lavori di sottrazione di terra al mare.
A stretto giro dal vertice Mattis-Abe, il governatore della prefettura di Okinawa Takeshi Onaga, eletto nel 2014 con una piattaforma politica antibasi, ha incontrato a Washington alcuni funzionari per gli affari giapponesi del dipartimento della Difesa facendosi portavoce dell’opposizione della popolazione locale all’ampliamento della struttura di Henoko. Alle richieste di Onaga, i funzionari hanno fatto orecchie da mercante. Henoko, infatti, rimane, sia per Tokyo sia per Washington, «l’unica soluzione che permette di risolvere problemi operativi, politici, finanziari e strategici ed evita l’uso continuo della base di Futenma». Con buona pace di chi da anni chiede che Okinawa sia finalmente libera dal peso ingombrante di una convivenza imposta e spesso violenta.
@Ondariva