Intervista al regista e scrittore brasiliano-americano Jonathan Nossiter, appassionato di enologia e di tutta la cultura che circonda il mondo del vino.
«Non è solo (né principalmente) il gusto a determinare la mia passione per il vino. Si tratta piuttosto dell’insieme dei gesti degli uomini e delle donne che li producono e del loro rapporto con la natura e la società. Tale aspetto si riflette senz’altro nel gusto del vino, proprio come la personalità e l’impegno di un artista condizionano – pur senza definirla – la qualità estetica del suo lavoro. Ma l’estetica senza l’etica è inerte, non raggiunge il vivente». Jonathan Nossiter dixit. Autore di sette lungometraggi – fra i quali Sunday (1997, vincitore del Sundance Film Festival), Mondovino (2004) e Resistenza naturale (2014) – e del saggio Le vie del vino (Einaudi, 2010), il regista statunintense, attualmente residente a Roma, opera in Insurrezione culturale – scritto a quattro mani con Olivier Beuvelet e pubblicato in Italia da «DeriveApprodi» – un accurato studio della dimensione etica e produttiva dei vignaioli naturali, individuando in essa i germogli di una nuova fioritura culturale e civile.
Il mercato, oggi, permette di vivere attraverso la produzione di vino naturale?
Ragionare esclusivamente in termini di mercato è molto deleterio. Il nuovo mondo di Trump è solo la risposta naturale a un condizionamento sociale e mentale consolidatosi negli anni che individua il valore umano in stretta relazione a una concezione mitica del mercato. I vignaioli naturali, consapevoli che il biologico ufficiale sia solo una nicchia di marketing e che il vero biologico significhi amare, capire e trasmettere la storia della terra nel suo scambio con l’essere umano, hanno compreso che è possibile fare un lavoro artigianale con una dimensione altamente culturale: se esercitata con talento e convinzione, tale attività si traduce in una sorta di rivoluzione pacifica e in un ideale di fraternità non ideologico e dunque non rigido, che permette di vivere con dignità e promuove una spiccata consapevolezza identitaria. In quest’ottica, la questione del mercato risulta con ogni evidenza svuotata. Osservo con piacere che persone che prima non si interessavano all’aspetto culturale del vino, ora sono affascinate non solo da quello che bevono ma anche dal lato umano e sociale che vi è dietro. Oggi, a Parigi come a New York e a Londra, esistono centinaia e centinaia di posti – che siano wine bar, ristoranti o enoteche – dove si vende vino naturale, nonostante nella città statunintense – occorre purtroppo aggiungere – i prezzi rimangano piuttosto alti, rispondendo in questo a una logica di mercato e non di scambio culturale.
Cosa contraddistingue il movimento del vino naturale da altri movimenti culturali o di protesta a esso coevi?
Tante cose, ma quello che rilevo, pensando al cinema e alla cultura in generale, è questo contrasto tra il materiale e l’immateriale. Credo che l’errore della mia generazione – io sono del ’61 – sia stato credere nell’immateriale, nel volatile: pensavamo che i grandi problemi, almeno per l’Occidente, fossero risolti e che bastasse solo immaginare un mondo migliore – o anche lottare per un esso ma in maniera assolutamente sconnessa dal concreto – per poterlo ottenere. Un’illusione tremenda di cui tutti oggi stiamo pagando il prezzo. Vedremo se ora con Trump, negli Stati Uniti o altrove, dovendo confrontarci di nuovo con minacce concrete, i movimenti culturali, artistici e di protesta non asseconderanno oltre quella vacuità di impegno etico e politico che da trent’anni a questa parte li ha contraddistinti. Nel fenomeno del vino naturale – fenomeno più che movimento, in quanto non è ideologico ma etico – tutto è legato ad aspetti materiali, tangibili: dalle prime fasi di produzione alla degustazione in un contesto sociale modulato sulla convivialità e sulla gioia di stare insieme. Gesti artigianali che producono cose vere. La moderna sinistra americana, che depreca il disprezzo che Trump riversa verso qualsiasi fatto e verità verificabile, non si rende conto delle proprie responsabilità; mi indigna che essa difenda una Clinton che a sua volta appoggia Wall Street e crea una speculazione basata solo su menzogne – e Trump rappresenta proprio l’espressione più grottesca ma logica di questo sistema –, mentre è proprio quando penso a questi agricoltori, che mettono le mani nella terra e ne traggono cultura, che trovo un’alternativa vera al modello espresso da Trump. Credo che in un momento talmente folle come quello attuale essi offrano un po’ di speranza, spingendoci, nel modo più gioioso e pacifico, a riflettere su ciò che ci sta intorno.
È importante per un vignaiolo naturale ottenere il marchio Doc?
Ciascun vignaiolo potrebbe dare una risposta diversa. Per alcuni non ha la minima importanza, anche perché oggi vi è una vasta rete di estimatori pronti a sostenere il loro lavoro, mentre per altri – come Thierry Puzelat in Francia o Corrado Dottori in Italia – è invece una condizione abbastanza drammatica, che comunque accettano non riconoscendo nelle istituzioni alcuna legittimità. Un libro di Mario Soldati, Vino al vino, permette di comprendere bene il rapporto tra cultura e agricoltura, etica e gesto, piacere e origini storiche. Soldati annotava infatti come il marchio Doc, che doveva rappresentare una garanzia di autenticità e di legame storico, fosse già allora espressione di diversi interessi, a volte mafiosi, altre volte burocratici, altre volte ancora inerenti a episodi di corruzione privata. Penso che eticamente e politicamente si debba trovare un sistema alternativo ai Doc, che non rappresentano ormai niente di autentico. Il vero compito del vignaiolo, oltre a bere il frutto del proprio lavoro, è di condurre ricerche accurate, identificare le radici storiche del vino. La cultura chiamata ad alimentare generazioni future è quella che riesce da un canto a radicarsi nel passato e dall’altro a innovare.
Cosa ne pensa dell’ambiguità delle risposte istituzionali alla diffusione di agenti chimici come il glifosato?
Purtroppo vi è una totale mancanza di ambiguità, è tutto estremamente chiaro. Il governo italiano – qualsiasi governo italiano –, l’industria agro-chimica e tutte le istituzioni che dovrebbero tutelare la salute e la trasmissione storica sono legate da un rapporto di stretta complicità. D’altronde, non bisogna dimenticare che i finanziamenti che sostengono quasi tutte le ricerche scientifiche svolte in Italia dalle scuole di agronomia ed enologia e la stragrande maggioranza dei progetti ivi connessi provengono dal privato, principalmente dall’industria agro-chimica.
Cosa pensa dell’odierna omologazione sia culturale che enologica in rapporto alla biodiversità?
Il concetto di biodiversità non va assimilato a una manifestazione di radicale ecologismo: la biodiversità è la questione ambientale, che ci interroga circa la sopravvivenza della vita biologica sul nostro pianeta, ivi compresa la specie umana. Un libro che consiglierei al riguardo è Tempi storici, tempi biologici di Enzo Tiezzi, padre della vignaiola Giovanna Tiezzi, professore di fisica e chimica dell’università di Siena e strenuo oppositore del nucleare. In questo scritto si soffermava sul pericoloso squilibrio tra la progressione della natura e quella della civiltà, rilevando come negli ultimi due secoli, dalla Rivoluzione Industriale in poi, l’uomo stia distruggendo quello che la Terra ha impiegato centinaia di milioni di anni a costruire. La diffusione della monocoltura, l’uso di fertilizzanti chimici, pesticidi, erbicidi e insetticidi, la produzione industriale di cibo, tutto è correlato: l’odierna omologazione risponde agli interessi di pochissime grandi aziende che detengono il controllo in assenza di governi disposti a sfidarle.
Cosa ne pensa della qualità e sostenibilità degli scambi commerciali internazionali?
Ci sono tanti modi per valutare la questione. Un ecologista radicale sosterrebbe che utilizzare l’aereo sia un atto immorale, in relazione all’impatto ambientale che il trasporto aereo comporta. In un mondo utopistico avrebbe ragione, ma questo mondo non esiste. Bisogna ragionare con quello che c’è e ci sono tanti modi per farlo. Penso ad esempio ad Alce Nero, un modello di resistenza in Italia, una tra le poche cooperative che tratta il biologico con grande serietà e trasparenza. Ricordo un dibattito tenutosi a Torino e organizzato da Alce Nero alla presenza di don Ciotti e di due direttori di cooperative con cui Alce Nero collabora, uno, in Costarica e Venezuela, che si occupa di caffé e cacao e un altro, in Perù, che tratta cacao e canna da zucchero: un terzo degli attuali agricoltori di quest’ultima realtà produttiva fino a qualche anno fa coltivava la coca, era legato a cartelli criminali e versava in condizioni di vita degradate ma, da quando è stato impiegato nell’azienda, il livello di alcolismo, prima molto diffuso, è sensibilmente calato e l’autostima ha segnato una forte ripresa. L’80% del loro lavoro è esportato in Italia da Alce Nero. Qualcuno potrebbe criticare l’impatto ambientale prodotto dal carbone attraverso lo spostamento di tanta merce dall’America Latina in Italia, sarebbe legittimo, ma gli effetti positivi che ne derivano sono notevoli, non ultimo la distribuzione in Italia di prodotti di qualità a prezzi accessibili.
Ci potrebbe parlare dei suoi progetti futuri?
In questo momento sto lavorando al mio prossimo lungometraggio, Le ultime parole, ispirato al romanzo di Santiago Amigorena Mes derniers mots, che vede coinvolti grandi attori come Alba Rohrwacher, Stellan Skarsgård, Valeria Golino e Charlotte Rampling. Ambientato nel giugno del 2086, è il racconto degli ultimi due superstiti della specie umana; più che un film di fantascienza, si tratta di un lavoro sospeso tra finzione e documentario. Fare cinema oggi è una questione molto discutibile, in quanto non viene più percepito, soprattutto dai giovani, come un atto culturale: bisogna ripensare tutto, a partire dalle stesse logiche di produzione. Ci stiamo ispirando in questo al modello dei vignaioli naturali, cercando di costruire legami più fraterni. Sono tornato da poco da un sopralluogo a Paestum: grazie alla Cineteca di Bologna e al direttore del sito archeologico, credo che riusciremo a filmare per qualche settimana in uno dei posti più suggestivi del pianeta. A prescindere dai risultati, girare questo film costituisce senz’altro un’esperienza meravigliosa.
Intervista al regista e scrittore brasiliano-americano Jonathan Nossiter, appassionato di enologia e di tutta la cultura che circonda il mondo del vino.