La vittoria di Pirro
La complicata congiuntura internazionale può costringere Erdoğan a posizioni che rischiano di scardinare il tanto sospirato consenso interno, al di là del referendum.
La complicata congiuntura internazionale può costringere Erdoğan a posizioni che rischiano di scardinare il tanto sospirato consenso interno, al di là del referendum.
La vittoria del presidente turco, Recep Tayyip Erdogan, al referendum costituzionale dello scorso 16 aprile rischia di essere una vittoria di Pirro. Il suo schieramento, favorevole alla riforma, ha prevalso ma il consenso che finora aveva circondato Erdogan, cresciuto ulteriormente dopo il fallito golpe del luglio 2016, si è pericolosamente assottigliato. Il “sì” alle modifiche costituzionali ha avuto appena il 51,41% e i “no” hanno prevalso nelle maggiori città turche. Più un segnale di debolezza che di forza per il presidente. Nelle prossime battaglie, e molte se ne vedono all’orizzonte, eventuali difficoltà potrebbero dunque essere molto insidiose per il destino di Erdogan.
I contenuti della riforma, lungi dal trasformare il presidente in un Sultano, sono meno drammatici di quanto non abbia spesso raccontato la stampa occidentale. Il Parlamento mantiene un forte potere su veto presidenziale, impeachment, dichiarazione dello stato di emergenza e ordini esecutivi. Il presidente della Repubblica turca sulla carta avrà indubbiamente più potere di prima, ma non più di quanto non abbiano i suoi omologhi francese o americano. Ma ciò che ha reso possibile la svolta autocratica impressa da Erdogan e dal suo partito (Akp) alla Turchia negli ultimi anni non è stato, e non sarà con questa riforma, un qualche intervento costituzionale o istituzionale. È stato il consenso plebiscitario − ottenuto grazie ai primi 10 anni di buon governo, durante i quali Erdogan ha operato la più grande redistribuzione del reddito della storia del Paese, favorendo la nascita e lo sviluppo delle PMI anatoliche − che a lungo ha circondato il presidente. Grazie a tale consenso, a un partito fortemente clientelare, al controllo sul Parlamento che si è poi esteso alla magistratura, alla polizia, all’esercito e ad ampie parti della società civile, Erdogan ha potuto comprimere la libertà di espressione e manifestazione, i diritti delle minoranze e in generale molti dei presidi di una democrazia liberale moderna, senza bisogno di cambiare le norme fondamentali. Di qui il timore che ora, con un consenso calato anche a causa del referendum che pure ha vinto, il presidente turco vada alle prossime fondamentali battaglie in una condizione di maggiore fragilità.
Tali battaglie hanno come proprio campo principale la politica estera, in particolare lo scenario siriano. Erdogan ha a lungo incarnato la figura di paladino delle Primavere arabe e delle ribellioni contro i dittatori mediorientali. In Siria, ha impegnato per anni la Turchia, economicamente, umanitariamente e anche militarmente, per aiutare i ribelli e abbattere Assad. L’opinione pubblica islamista turca lo ha sempre amato e sostenuto per questo. Da pochi mesi ha tuttavia dovuto cambiare approccio, da che l’indisponibilità degli Stati Uniti a rinunciare (per ora) all’alleanza con i curdi siriani dello Ypg – usati come fanteria della coalizione internazionale contro l’Isis – e, più in generale, lo scarso coinvolgimento di Washington nella partita siriana hanno spinto Ankara verso Mosca. Quest’avvicinamento al Cremlino, con cui appena due anni fa i rapporti erano molto tesi dopo l’abbattimento di un caccia-bombardiere russo da parte della Turchia, è stato tanto altalenante quanto gravido di conseguenze. Altalenante, già che, dopo lo strike americano in Siria ordinato da Trump come reazione all’utilizzo di armi chimiche da parte di Damasco, Ankara è subito tornata a chiedere la deposizione di Assad e un intervento militare americano con supporto turco in Siria. Gravido di conseguenze, dato che Putin – perdonate le intemperanze di Erdogan dopo lo strike Usa, in un momento che era comunque a ridosso del voto referendario turco – ha di recente incassato l’appoggio della Turchia all’accordo sulle quattro “aree di de-escalation” in Siria. Una mossa che nei piani di Mosca dovrebbe consentire di isolare Isis e qaedisti siriani dal resto della ribellione, di conseguenza indebolita, e di rafforzare la posizione del regime.
Avvicinandosi a Mosca, alleata di ferro di Assad, Erdogan rischia così di perdere consensi nell’opinione pubblica islamista che è il nocciolo duro del suo elettorato e che per anni è stata nutrita con sogni di grandeur per la svolta “neo-ottomana” nella politica estera turca. Non facendolo, con gli Usa che hanno una linea scostante e debole in Siria, tranne che nell’appoggio allo Ypg per conquistare Raqqa e i territori dello Stato Islamico, il presidente turco rischierebbe di restare senza sponde nella partita siriana e di non poter quindi impedire il peggior incubo strategico per Ankara: la nascita di un’entità autonoma curda, vicina ideologicamente al Pkk considerato dalla Turchia un’organizzazione terroristica, al proprio confine meridionale. Più questo rischio si fa concreto, più Erdogan perde l’appoggio dei nazionalisti turchi – il cui consenso era stato conquistato nel 2015 proprio grazie a una escalation contro il Pkk, con cui fino ad allora si era invece voluto trattare –, già allontanatisi nel voto del 16 aprile, e di pezzi di apparato militare e di intelligence che vedono nell’indipendentismo curdo la minaccia più pericolosa per il futuro del Paese.
Stritolata tra gli interessi, non allineati ai propri, delle due grandi potenze, la Turchia di Erdogan si trova in una posizione estremamente complicata. Dopo la vittoria del referendum costituzionale sembra che il presidente turco abbia voluto saggiare il terreno, bombardando una serie di postazioni curdo-siriane a fine aprile. La reazione russa e americana è stata tuttavia negativa per Ankara. Sia Mosca, nel cantone occidentale di Afrin, che Washington, nei cantoni orientali di Kobane e Cizre, hanno schierato le proprie truppe in difesa di quelle curde. Il Cremlino non vuol rischiare che i ribelli sostenuti a nord di Aleppo dalla Turchia, alleati di altri ribelli contro cui Assad combatte quotidianamente, possano espandersi al di fuori della sacca che Putin ha concesso a Erdogan con l’operazione “Scudo dell’Eufrate”. Un cuneo che dal confine turco va fino alla cittadina di Al Bab, il cui scopo principale è proprio impedire la contiguità territoriale dei cantoni curdi (un “contentino” dato alla Turchia a fine 2016, che ha in cambio sacrificato il proprio pieno sostegno alla ribellione, facilitando così la caduta di Aleppo di dicembre scorso). La Casa Bianca specularmente non vuole che le pur legittime preoccupazioni turche ostacolino l’unico obiettivo di politica estera in Siria ufficialmente proclamato da Trump: la sconfitta dello Stato Islamico.
In vista dell’assalto finale alla capitale siriana del Califfato, Raqqa, gli Usa hanno anche iniziato a inviare materiale bellico sofisticato alle Syrian Democratic Forces (SDF), la coalizione a guida curda che opera contro l’Isis. La Turchia ha protestato ma ancora nel recente incontro negli Usa tra Trump ed Erdogan non sono esplose le divergenze tra alleati. Il presidente turco sembra non volersi alienare le simpatie del nuovo presidente americano, unico leader occidentale a essersi congratulato con lui subito dopo la vittoria al referendum e che sulla Siria potrebbe sempre cambiare idea (le ultime affermazioni della Casa Bianca sui “forni crematori” di Assad potrebbero fare da preludio a un nuovo cambio di direzione, dopo la riappacificazione de facto con Mosca nelle settimane successive allo strike Usa in Siria).
Tuttavia, a meno di altre giravolte di Trump, Erdogan sembra condannato a fronteggiare un futuro in cui la ribellione siriana verrà lentamente soffocata dalle manovre del Cremlino, che vedono oltretutto la Turchia come parte attiva. E dovrà probabilmente anche accettare la liberazione di Raqqa a opera delle SDF, con la conseguente legittimazione per i curdi siriani al futuro tavolo delle trattative. Impedire che in questa morsa di politica estera si corroda il suo consenso interno, tra islamisti che non digerirebbero un “tradimento” della ribellione anti-Assad e nazionalisti che lo giudicherebbero debole nel lasciar ingrandire la minaccia curda al confine sud, sarà la sfida di Erdogan nei prossimi anni. Perché senza consenso, anche con la nuova costituzione, la sua parabola non potrà che iniziare a scendere.
La complicata congiuntura internazionale può costringere Erdoğan a posizioni che rischiano di scardinare il tanto sospirato consenso interno, al di là del referendum.
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