Alle cinque del mattino, le porte dell’istituto Drassanes sono ancora chiuse. Ma già si discute del referendum. E non tutti gli aspiranti votanti sono favorevoli alla secessione. Poi arrivano le urne, i Mossos, e le immagini di una giornata che cambierà la Catalogna e la Spagna.
Barcellona. È ancora notte alle 5 e piove, ma davanti alla scuola Drassanes ci sono già una quarantina di persone. Le porte sono chiuse ma dentro due puliscono la palestra dove sui materassi hanno dormito da venerdì genitori, vicini, professori e qualche studente per evitare che la polizia la mattina della domenica impedisse l’accesso agli scrutatori. Sotto la tettoia c’è un tavolo con caffè e cornetti. Non si sa se si voterà perché urne e schede sono state sequestrate nei giorni precedenti. Non si sa nemmeno se arriverà la Guardia Civil o i Mossos, la polizia catalana.
C’è poco da girarci attorno: la Costituzione varata dopo la morte del dittatore Franco – senza una rottura, insistono i catalani separatisti – non lo prevede. La preparazione, però, è andata avanti coordinata da due associazioni di tutti i partiti indipendentisti, dalla destra alla sinistra.
Le persone chiacchierano sedute alla buona. “Se questo referendum fosse stato vincolante io avrei votato No. Ma non ce l’hanno permesso e ora io voglio solo votare”, dice la trentenne Gemma, di famiglia non catalana che ce l’ha con il governo perché è corrotto e fa solo i propri interessi. Marta, una giovane illustratrice, di origine valenziana è meno veemente. Vuole votare perché non offrendo niente il governo “ci hanno già messo con le spalle al muro. C’è molta confusione. So di colleghi non catalani che hanno difficoltà. Sono un 20%, mentre un 30% è disinteressato o indifferente, ma il 95%, direi, vuole che qualcosa cambi”. Marta non si aspetta l’indipendenza ma un negoziato serio. Gemma invece sì. È curioso, ma neanche la signora con cui parlo subito dopo è di famiglia catalana, ma dell’Estremadura. Emiliana porta molto bene e con eleganza i suoi 75 anni e racconta di aver frequentato solo le elementari perché a 14 anni lavorava in fabbrica dove “solo 3 su sette ragazze erano catalane”. Con il marito si è alzata alle 4.30 perché “è una questione di sentimento, di cultura. I catalani sono diversi dal resto della Spagna, sono grandi lavoratori, risparmiatori. Qui il governo è stato sempre PP con l’appoggio dello PSOE e questo ora succede perché per non perdere il potere non ci hanno mai lasciato esprimere”.
“È tutta questa intransigenza che ha schierato dalla nostra parte persone che non credevano molto nell’indipendenza”, mi spiega il giornalista Toni Soler. Sì, il PP in Catalogna non è popolare e molti appoggerebbero qualsiasi causa pur di contrastarlo”.
Verso le 6 arrivano quattro Mossos su una pattuglia. C’è un po’ di nervosismo. Tutti hanno letto il volantino che spiega come comportarsi per evitare le provocazioni: “Tenete le mani in alto, non offrite resistenza, sedetevi e afferratevi per le braccia”. Due Mossos se ne stanno in piedi a circa 70 metri dall’ingresso della scuola. Il loro capo Lluis Trapero potrà dire al governo che l’ordine pubblico è stato garantito proprio non sgombrando le centinaia di persone in coda. Arriva la consegna di non pubblicare alcun video che ritragga i Mossos per evitare che siano usati come prova contro di loro. Si capisce che i catalani li sentono dalla loro parte.
Verso le 6.45 un rumore fa voltare tutti: le urne, di fattura cinese, sono arrivate da una porta posteriore. C’è d’aspettare le 9. Le persone ammazzano il tempo comunicando su Twitter, Telegram, Firechat, WhatsApp, ma più tardi gli organizzatori chiederanno di non usare il wifi per non far collassare le reti dei seggi. “I social media hanno compensato lo squilibrio informativo, perché in Catalogna i giornali principali e le televisioni hanno sposato il punto di vista spagnolo”, dice Soler.
Un forte applauso annuncia l’apertura del seggio e tutti si mettono in coda. Arriva spinto in sedia a rotelle l’architetto Oriol Bohigas e tutti applaudono. Succederà in tutte le scuole ogni volta che una persona anziana esce o arriva al seggio. A qualche anziano l’applauso fa venire le lacrime agli occhi.
Cominciano ad arrivare i video della polizia che sfonda con tubi le porte o i recinti di una scuola e di persone che escono con le mani alzate, dei calci, delle ragazze trascinate dai capelli e di chi non cammina a causa di una pallottola di gomma (vietate in Catalogna). Alla fine, 319 dei 2.315 seggi vengono sgombrati, ma nelle altre scuole il voto continua regolare e festoso. Qualche vicino mette a tutto volume John Lennon e le parole “… living life in peace” raggiungono solo una parte della fitta coda che circonda completamente un doppio isolato.
Madrid non potrebbe essere più lontana, una realtà parallela con un linguaggio parallelo. È come se Felipe IV non esistesse – i catalani sono convinti repubblicani. In un dibattito radio da Madrid dei giornalisti “unionisti” definiscono i volti dell'”insurrezione”, Carles Puigdemont (PDeCAT, di destra) e Oriol Junqueras (ERC, Sinistra repubblicana catalana) interlocutori non più validi perché hanno “sobillato minori e manipolato le persone” trasmettendo l’idea che la mobilitazione che ha portato all’1 ottobre (1-O) sia opera di un pugno di persone e di cittadini manipolati.
“La dimensione più importante del caso catalano”, mi dice Soler, “è come le persone di tutte le età e classi sociali si siano organizzate in forma massiccia e pacifica, come qui, che siano catalani o figli di spagnoli. I catalani hanno un grande senso di collettività e di comunità. È tipico che in ogni paese ci siano associazioni di vicini, culturali e di mille altri tipi, come quando si sono organizzati con comitati in ogni quartiere per sostenere i rifugiati”, aggiunge Soler.
Molti catalanisti che non vogliono l’indipendenza ma una maggiore autonomia o un federalismo oggi si sono dovuti schierare per o contro l’indipendenza. Ciò è da imputare ai catalanisti intransigenti ma anche al governo Rajoy. “Ha dato carta bianca alla polizia pensando a un disbrigo veloce a mezzo sentenze e prova di forza e non a una sollevazione popolare contro di lui”, è l’opinione di un giornalista basco che preferisce restare anonimo. “Ma attenzione, Rajoy è di Teflon, questa è la sua strategia, la polarizzazione gli va benissimo perché non gli interessa una base elettorale in Catalogna, mentre tutto questo gli garantisce i voti nel resto della Spagna”.
Due giorni prima il ministro degli Interni aveva detto con condiscendenza, “I catalani potranno fare la loro scampagnata”, scandalizzando anche gli osservatori stranieri, tra cui la trentina di ex primi ministri e personalità internazionali ufficiali. Altri sono venuti spontaneamente, come Martine Ouellet, rappresentante del Blocco Québécois del parlamento del Québec. “Siamo due paesi avanzati. Il fatto che la gente qui continui a votare nonostante la repressione ci sarà d’ispirazione. La comunità internazionale dovrà dire qualcosa su questa deriva antidemocratica“, mi dice. “Che il referendum sia illegale è un falso problema perché risponde al diritto di autodeterminazione che è un diritto internazionale che dovrebbe prevalere sulla Costituzione spagnola”.
Alfonsi François, corso e rappresentante dell’alleanza dei partiti europei di sinistra per l’autodeterminazione, mi spiega perché è falsa l’accusa di nazionalismo: “C’è quello della resistenza e quello occupante. Noi siamo della resistenza, siamo popoli che hanno fatto la storia dell’Europa e quindi abbiamo diritto a essere parte costituente e a poter scegliere autonomia, indipendenza o altre forme che la Costituzione europea permetterà. L’Europa è un motore della democrazia, senza sparisce. La sua costruzione ha richiesto 50 anni e ne richiederà ancora altrettanti o più. Non può avere interesse a una crisi come questa”.
Dai cellulari arrivano nuove notizie di pestaggi, tra cui quello a un uomo anziano che alla fine della giornata verserà in condizioni molto gravi. “Dopo i fatti di oggi chiederemo una mediazione internazionale”, mi dice il consigliere del Comune di Barcellona di ERC Alfred Bosch.
Le persone non si allontanano dai seggi per paura che la polizia arrivi anche dove si vota civilmente. I ragazzi stanno seduti per terra, gli altri in piedi a chiacchierare in gruppi. Si sa che in qualche paese dell’entroterra i catalanisti si sono concentrati nella piazza principale bloccandone gli ingressi con trattori e furgoni. Andrà avanti così fino alla chiusura la sera alle 8 quando si solleva un grande applauso perché può cominciare il conteggio. Con un’affluenza del 42,5% (più di 2,2 milioni), il Sì ha vinto con l’90,9%, il No ha raccolto il 7,87%, il resto sono state schede bianche o nulle.
Se qualcuno aveva dubitato sull’andare a votare Sì o No, gli eventi, commentano le persone, l’hanno spinto ad andarci. In piazza Catalogna nel centro di Barcellona la sera non c’è una folla sterminata – la giornata è stata campale per chi ha votato. Puigdemont dice: “Ci siamo guadagnati il diritto a uno Stato indipendente sotto forma di Repubblica”. Comunque sarà, il dopo 1-O si annuncia complicato e lungo.
@GuiomarParada
Alle cinque del mattino, le porte dell’istituto Drassanes sono ancora chiuse. Ma già si discute del referendum. E non tutti gli aspiranti votanti sono favorevoli alla secessione. Poi arrivano le urne, i Mossos, e le immagini di una giornata che cambierà la Catalogna e la Spagna.