Un’imboscata contro l’esercito birmano riporta l’attenzione sui guerriglieri. Pochi e male armati, il regime ne denuncia l’affiliazione ai network del terrore. Loro rivendicano la resistenza contro il “terrorismo di Stato”. Ma quanto pesano nella comunità Rohingya?
Nella giornata di domenica 7 gennaio l’Arakan Rohingya Salvation Army (Arsa), in un comunicato diramato su Twitter, ha rivendicato un’imboscata contro un veicolo dell’esercito regolare birmano che stava viaggiando nei pressi della cittadina di Maungdaw, nello Stato Rakhine del Myanmar.
Secondo le ricostruzioni dell’attentato pubblicate dal quotidiano Irrawaddy, lo scorso 5 gennaio un veicolo civile che trasportava sei soldati e un ufficiale dell’esercito birmano è stato fatto saltare in aria da una mina azionata con un telecomando a distanza, ferendo i passeggeri.
Nella rivendicazione, Arsa fa riferimento alle «menzogne» di Aung San Suu Kyi, che nel mese di settembre aveva annunciato alla comunità internazionale la sospensione delle operazioni militari nel Rakhine settentrionale, precondizione per accordi bilaterali con il Bangladesh relativi al rimpatrio di centinaia di migliaia di rifugiati Rohingya scappati oltreconfine in fuga dalle violenze dell’esercito birmano.
Specificando che da allora «il governo terrorista birmano non ha mai interrotto le proprie azioni di stampo terroristico» nell’area, nel comunicato Arsa indica di non avere altra scelta che «combattere il terrorismo di Stato sponsorizzato dal governo birmano contro la popolazione Rohingya, difendendo, soccorrendo e proteggendo la comunità Rohingya al meglio delle nostre capacità, in linea coi princìpi di autodifesa vigenti nel diritto internazionale».
In seguito alla rivendicazione, Stati Uniti, Regno Unito hanno condannato gli «atti di violenza» di Arsa, considerandoli controproducenti per il ristabilimento della pace e della sicurezza nello Stato Rakhine.
Il governo del Myanmar, attraverso il portavoce Zaw Htay, ha accusato Arsa di voler «terrorizzare coloro che intendono rientrare nello Stato del Rakhine», sabotando un piano di rimpatrio su cui il governo ha lavorato per mesi. In riferimento alla necessità espressa da Arsa di «coinvolgere rappresentanti della popolazione Rohingya nel processo decisionale che influenzerà gli aspetti umanitari e le politiche del futuro», Zaw Htay ha chiarito che il governo non ha alcuna intenzione di «trattare coi terroristi» e anzi, «saranno combattuti fino alla morte».
L’inquadramento di Arsa nell’esplosione di violenza nello stato del Rakhine risalente allo scorso mese di agosto rimane particolarmente complicato.
Fondata nel 2013 da Ata Ullah, rohingya nato in Pakistan, Arsa conterebbe solo qualche centinaio di «miliziani full time», cui si aggiungono altre centinaia di «sostenitori» poco o per nulla addestrati, reclutati nei villaggi dello Stato Rakhine. Queste le informazioni raccolte qualche mese fa da Jonathan Head, inviato nel Sudest Asiatico per Bbc, intervistando alcuni rifugiati Rohingya nei campi profughi del Bangladesh: il governo birmano nega l’accesso allo Stato Rakhine sia alla stampa, sia alle organizzazioni umanitarie, per tanto non resta altro che affidarsi ai resoconti dei testimoni oculari fuggiti dal Myanmar.
Secondo le testimonianze raccolte da Head, Arsa vanta un sostegno parziale all’interno della comunità Rohingya: alcuni ne esaltano l’iniziativa come «l’unico gruppo che si è opposto ai militari dal 1950 ad oggi», mentre altri lamentano un’organizzazione approssimativa e pressioni eccessive, talvolta ricorrendo all’inganno, per reclutare giovani Rohingya in missioni senza speranza di successo. Ventenni armati di machete e bastoni appuntiti lanciati all’assalto di posti di polizia dietro la promessa di un presunto «supporto armato» mai arrivato: azioni suicide che un giovane militante ha giustificato come «ricerca di attenzione internazionale» ma che, oltre a promuovere gli sforzi di Arsa in difesa del popolo Rohingya, ha scatenato un’offensiva militare senza precedenti nella storia recente dello Stato Rakhine.
Secondo Al Jazeera, all’assalto di posti di polizia portato avanti da «poche dozzine di militanti armati di bastoni e coltelli» nell’ottobre del 2016 il governo birmano rispose con un dispiegamento di forze di gran lunga superiore, mettendo in atto una strategia del terrore fatta di razzie, stupri e violenze che raggiunse l’acme nel mese di agosto. Secondo l’Onu, l’attività dell’esercito birmano in Rakhine è considerata «pulizia etnica», con almeno seimila morti e oltre un milione di Rohingya costretti a fuggire dai propri villaggi dati alle fiamme. 650Mila rifugiati sono al momento bloccati in tendopoli allestite oltre il confine bangladeshi.
Il carattere islamico di Arsa, espressione della fede della maggioranza dei Rohingya, si presta a facili speculazioni su presunte affiliazioni ad Al Qaeda o a Isis, funzionali alla demonizzazione della comunità Rohingya e alla giustificazione delle violenze indiscriminate perpetrate dall’esercito regolare birmano negli ultimi mesi. A questo proposito, un comunicato rilasciato da Arsa nel settembre del 2017 indica che l’organizzazione «non ha alcun contatto con Al-Qaeda, lo Stato Islamico, Lashkar-e-Taiba [organizzazione terroristica pachistana, ndr] o qualsiasi altro gruppo terroristico transnazionale. Nonostante il gruppo possa ricevere fondi dalla diaspora Rohingya in Arabia Saudita, il gruppo non chiede la formazione di uno Stato islamico né si considera separatista, bensì chiede pace ed eguaglianza etnica».
Rimane da capire quanto Arsa rappresenti effettivamente le istanze della maggioranza musulmana Rohingya e se, superando la strategia di timide azioni militari di fatto «dimostrative», possa vantare un peso politico tale da sedersi a un ipotetico futuro tavolo delle trattative: opzione che, di certo, dipende più dal sostegno della comunità internazionale che dalla benevolenza del governo birmano.
@majunteo
Un’imboscata contro l’esercito birmano riporta l’attenzione sui guerriglieri. Pochi e male armati, il regime ne denuncia l’affiliazione ai network del terrore. Loro rivendicano la resistenza contro il “terrorismo di Stato”. Ma quanto pesano nella comunità Rohingya?