Lo scandalo Petrocaribe e la disfatta della diplomazia petrolifera chavista
Petrocaribe doveva essere il fiore all’occhiello del chavismo: dava ai vicini petrolio a buon mercato e la possibilità di avviare progetti di sviluppo. Ma a Haiti i soldi sono spariti e le proteste divampano. Potrebbe essere solo l'inizio di un terremoto regionale, destinato a scuotere anche Caracas
Petrocaribe doveva essere il fiore all’occhiello del chavismo: dava ai vicini petrolio a buon mercato e la possibilità di avviare progetti di sviluppo. Ma a Haiti i soldi sono spariti e le proteste divampano. Potrebbe essere solo l’inizio di un terremoto regionale, destinato a scuotere anche Caracas
Dal 10 dicembre il Venezuela ha in mano la presidenza dell’Opec. Compito arduo, sia per le forti tensioni nello scacchiere internazionale, sia per la situazione disastrosa in cui sono precipitate le proprie politiche petrolifere.
Anche Caracas ha usato il greggio come un’arma geopolitica ma ora il gioco sembra essergli sfuggito di mano.
Prendete Petrocaribe: doveva essere il fiore all’occhiello del chavismo perché avrebbe dimostrato la possibilità di creare una cooperazione equa e solidale in tutta la regione caribeña. Petrocaribe è nato così nel 2005, una delle spettacolari carte sfoderate da Hugo Chávez. Il Venezuela si impegnava a vendere a condizioni mai viste prima il suo petrolio ai piccoli e dimenticati Paesi-isole, al tumefatto cordone centroamericano e naturalmente a Cuba. Il meccanismo funziona così: il Venezuela assicura forniture di greggio che vengono pagate metà a prezzo corrente e l’altra metà in una ventina d’anni (tra i 22 e i 25) a un tasso tra l’1 e il 2% a seconda degli accordi. Con i soldi risparmiati, i singoli governi possono avere l’ossigeno per fare gli investimenti interni di cui hanno bisogno, senza finire impiccati dalle regole di mercato.
Con la crisi in cui è precipitato il Venezuela, ci si era quasi dimenticati di questo programma che è un pezzo chiave della retorica chavista. Poi un grido è arrivato da Haiti, il più disastrato tra i 14 partner: «Kot kob Petro Caribe a?», urlava la folla in criollo a Port au Prince. «Dove sono i soldi di Petrocaribe?». Le proteste sono culminate a metà novembre con una scia di sei morti e decine di feriti.
È da un anno che gli haitiani chiedono al presidente Jovenel Moïse di rispondere: a fine 2017, la commissione etica e anticorruzione del Senato ha presentato un dossier di 656 pagine in cui si ricostruisce la scomparsa tra il 2008 e il 2016 di oltre 3,8 miliardi di dollari provenienti dal programma petrolifero. Si fanno pure nomi e cognomi, a cominciare da due ex-premier e una serie di ministri e alti funzionari. Solo dopo gli scontri il governo ha rimosso due figure chiave dell’amministrazione per cercare di calmare gli animi.
«Il tempo della battaglia è terminato. È ora di lavorare assieme», è stato il disperato appello in tivù del presidente. Ma l’inerzia lunga un anno gli ha bruciato molto del credito di cui godeva. Moïse, un impresario bananero con il sogno di fare di Haiti un Paese di agricoltura biologica e di energia solare, è in carica dal febbraio 2017, dopo la malconcia presidenza dell’ex-cantante Michel Martelly e un lungo periodo funestato da calamità naturali.
Haiti è entrata in Petrocaribe nel 2007, per decisione dell’allora presidente Rene García Preval – suscitando le furie degli Stati Uniti – e da allora si sono succeduti nove capi di Stato. Secondo la Ong Transparencia Venezuela: «Dopo il terremoto che nel 2010 ha distrutto l’isola, il Venezuela si è impegnato con nuovi finanziamenti e ha condonato ad Haiti il debito petrolifero pendente che in quel momento era di 395 milioni di dollari».
Una recente inchiesta di Woy Magazine ha raccontato che nel 2014 il governo haitiano ha raccolto in un report 234 progetti, dalla ricostruzione dell’aeroporto alle nuove strade, scuole e campi sportivi. Gli stessi che ora sono sotto l’occhio del ciclone. La rivista ha ricostruito le mobilitazioni, corse rapide sulle reti sociali fino a diventare un’onda: in pieno Carnevale – che qui è una sorta di festa nazionale – il gruppo musicale Brother’s Posse lanciava la canzone Danse Petro diventata un fenomeno di massa e poco dopo il cineasta Gilbert Mirambeau ha twittato il famoso “Kot kob Petro Caribe a?”, subito virale, invitando la gente a scendere in strada, a fare petizioni e a documentare le opere incompiute o mai realizzate. Anche se i fatti contestati non ricadono sull’attuale presidente, il sospetto di voler coprire lo scandalo lo ha messo in un angolo. Petrocaribe lo sta bruciando.
«Quello che sorprende è l’assoluto silenzio del Venezuela sulla vicenda», racconta a eastwest.eu Mirna Yonis Lombano, docente alla Ucv di Caracas ed esperta di relazioni internazionali nel Caribe. «Non una dichiarazione né una richiesta di spiegazioni». Il perché, secondo lei, sta nella natura delle politiche caraibiche di Caracas: «La quantità di aiuti e di facilitazioni petrolifere servono a comprarsi rapporti amichevoli, che si traducono in voti contrari o astensioni nelle sedi internazionali e il silenzio reciproco sugli affari interni». A sovrintendere l’operazione, negli anni più difficili per il Venezuela, è Delcy Rodriguez, ministra degli esteri tra il 2014 e il 2017 e da giugno di quest’anno vice-presidente: è lei, fedelissima di Maduro, che gira per il Caribe, sottoscrive accordi e stringe patti.
Petrocaribe, ben lontano dall’essere una forma di cooperazione equa, è diventato un meccanismo per oliare complicità. Il silenzio in questo caso sopperisce alle difficoltà che il programma petrolifero ha nel frattempo subito per effetto del basso prezzo del crudo e della produzione venezuelana precipitata ai minimi storici.
«Quella che doveva essere una legittima e intelligente strategia geopolitica si è trasformata in una gestione disastrosa e opaca, di cui nessuno sa bene né dati né finalità», ammette con eastwest.eu Carlos Mendoza Pottellá, consulente del Banco Centrale di Venezuela e a lungo docente di economia petrolifera alla Ucv. «Il problema», aggiunge, «è l’intera politica petrolifera del Paese, che continua a sognare l’impossibile, quei giacimenti enormi e poco utilizzabili della Faja del Orinoco, abbandonando i campi tradizionali ricchi di un petrolio leggero e vendibile». E così hanno lasciato deperire gli investimenti, la manutenzione, la gestione oculata.
Pur ammaccato, il programma di Petrocaribe è continuato. Ma trovare dati su vendite e aiuti finanziari è una chimera: «La totale mancanza di trasparenza», aggiunge Mirna Yonis, «non è un punto debole del programma ma un meccanismo necessario per garantirne il funzionamento». Se si aggiungono tutti i contratti bilaterali, ricostruire i movimenti diventa impossibile, dicono tutti gli analisti che abbiamo contattato. Non a caso, i rapporti con Cuba sono regolati da una matrioska di accordi speciali che sfuggono a qualunque verifica.
Quello di Haiti non è che la punta di un iceberg di uno scandalo che potrebbe avere dimensioni enormi e regionali. «Il dubbio», racconta un analista venezuelano che preferisce rimanere anonimo, «è se Petrocaribe sia stata una grande lavanderia di denaro sporco o illecito e non solo una fabbrica di consenso diplomatico regionale». E avverte: «Quanto siano implicati funzionari venezuelani nelle alte sfere nessuno lo può dire con certezza ma le piste da seguire ci sono tutte».
Il caso del Nicaragua è eclatante. Albanisa, che sta per Alba de Nicaragua S.A., è nata nel 2007: è una società privata, con capitali per il 51% Pdvsa – la petrolifera venezuelana – e per il 49% Petronic – l’omologa nicaraguense -, su cui poggia Petrocaribe nel Paese sandinista. Negli anni si è trasformata in una vera holding, gestendo una raffineria e una rete di distribuzione di benzina, un gruppo bancario, una linea aerea, una mano nel settore immobiliare e persino un allevamento di bachi da seta. Due dei figli di Daniel Ortega, Rafael e Laureano, sono dentro la società. Da qui transitano i fondi per le spese sociali di cui si vanta il presidente sandinista. Ed essendo una società privata non ha nessun obbligo di rendicontazione in parlamento.
Anzi, non c’è proprio nessuna contabilità pubblica: «Non conosciamo la struttura legale, chi è azionista e quali utili produca», ha raccontato Carlos Fernando Chamorro, direttore de El Confidencial, che già nel 2011 pubblicava più di 1200 documenti riservati, una sorta di NicaLeaks, mostrando per la prima volta la trama di affari. Con la crisi venezuelana, le forniture di greggio si sarebbero ridotte dell’80%. Oggi sembra che Albanisa abbia accumulato debiti per 3,2 miliardi di dollari: come si siano sommati e chi li pagherà non si sa, visto che per il governo è una questione privata della società.
Nel maggio di quest’anno, invece, la prestigiosa piattaforma di giornalismo d’inchiesta In-Sight Crime ha ricostruito i giri molto poco chiari tra Caracas e El Salvador. Qui funziona dal 2009 Alba Petroleos (Ap), società per il 60% Pdvsa e il 40% in mano a 18 municipi, tutti con sindaci del Fmln al potere. Regista dell’operazione sarebbe un ex-capo guerrigliero, José Luis Merino, alias Comandante Ramiro, ora vice-ministro per gli Investimenti stranieri. Nella firma di costituzione della società non compare lui ma il fratello, Sigfredo Merino. Avviata con un milione di dollari, nell’ultimo bilancio del 2015 dichiarava di avere 1,1 miliardi di dollari di utile: anche Ap è diventata una holding con almeno 10 imprese nel settore alimentare, di importazione di medicine, finanziarie e distribuzione di idrocarburi. Un’indagine del Congresso Usa ha rivelato non solo una trama di società offshore con base a Panama ma anche triangolazioni con le Farc colombiane.
Cos’è allora Petrocaribe? E’ una domanda a cui pochi sanno rispondere davvero. I Paesi del Caribe hanno usato a proprio vantaggio la generosità di Caracas e chiudere uno o due occhi è stato il prezzo vantaggioso da pagare. C’è chi ha fatto affari, anche personali, e chi i soldi risparmiati li ha usati davvero: Saint Vincent and the Granadines ad esempio si è costruita un aeroporto supermoderno – alla cui inaugurazione è andato Maduro di persona -. A Saint Kitts and Nevis i venezuelani coprono collegamenti aerei che l’arcipelago non si potrebbe permettere e in cambio lascia che sostino i veivoli militari cubani nel loro incessante vaivén con Caracas.
«I Paesi caribeños sono piccoli e dipendenti ma politicamente intelligenti». sottolinea Mirna Yonis. «Quando hanno visto avvicinarsi la crisi venezuelana, hanno firmato accordi di cooperazione con gli Usa e l’Ue, hanno trovato partner per energie rinnovabili e di cooperazione. Tengono in piedi le relazioni con Caracas ma non si legano mani e piedi».
«Ai tempi in cui Caracas aveva una visione», ricorda Carlos Mendoza Pottellá, «persino Trinindad and Tobago e gli altri Paesi anglofoni che non facevano parte di Petrocaribe, sostenevano politicamente il Venezuela». Ora il gioco è cambiato e nessuno sa dire come.
Allora bisogna tornare a Haiti. Quando Don Kato dei Brother’s Posse canta il suo merengue carnevalesco, gioca con la parola Petro, che oltre a riferirsi ai petrodollari dei vicini è anche una danza rituale vudù con cui ogni anno si ringraziano le divinità. A differenza di altre, non ha origini africane ma è nata qui durante i moti rivoluzionari. Caracas, che è sempre attenta a tutti i segnali e i simboli, a suo modo è avvertita.
Petrocaribe doveva essere il fiore all’occhiello del chavismo: dava ai vicini petrolio a buon mercato e la possibilità di avviare progetti di sviluppo. Ma a Haiti i soldi sono spariti e le proteste divampano. Potrebbe essere solo l’inizio di un terremoto regionale, destinato a scuotere anche Caracas
Dal 10 dicembre il Venezuela ha in mano la presidenza dell’Opec. Compito arduo, sia per le forti tensioni nello scacchiere internazionale, sia per la situazione disastrosa in cui sono precipitate le proprie politiche petrolifere.
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