Europa: crescita zero
In un'Europa sempre meno fertile, a maggioranza over 65 anziché under 30, rischia di mancare chi inventa, chi studia, chi porta qualcosa di nuovo...
In un’Europa sempre meno fertile, a maggioranza over 65 anziché under 30, rischia di mancare chi inventa, chi studia, chi porta qualcosa di nuovo…
Ulrike Bischop è una giovane pastora di Dessau, in Sassonia-Anhalt. Qui è nata, qui ha avuto il suo primo incarico, dopo la laurea in teologia e gli anni di tirocinio. Qui ha celebrato il suo primo battesimo, due bambini. Uno era afghano, l’altro iraniano. Lo racconta con emozione; ma non si è stupita più di tanto dei due nuovi piccoli protestanti arrivati sulle rotte migratorie dell’Est nella città del Bauhaus. Come gli altri lander della Germania est, la Sassonia Anhalt ha vissuto quello choc demografico post-unificazione che ha colpito tutta l’ex Ddr. Un calo rapido, quasi un “buco” nelle nascite, un caso da manuale per gli studiosi di demografia. Meno nascite negli anni Novanta, significa meno donne in età feconda oggi. Non è successo solo a Dessau, né solo nell’est europeo. Ma il piccolo choc di Dessau di ieri, e quei battesimi in cammino di oggi, fanno capire quanto le dinamiche demografiche siano allo stesso tempo prevedibili e imprevedibili. Ci sono gli effetti di lungo periodo lungo il corso di vita delle generazioni: sappiamo già oggi che l’anno scorso in Italia sono nate 222.418 bambine, che raggiungeranno attorno al 2050 l’età in cui oggi si fa, mediamente, il primo figlio. Ci sono i cambiamenti culturali, sociali, politici: la mamma di Ulrike, nella Germania dell’Est, ha fatto più figli dei suoi figli, tedeschi unificati; solo una donna italiana su 10, tra le nate negli anni ’50, non ha fatto figlie, mentre tra le nate nel ’77 le senza-figli sono il 22%. E poi ci sono le giravolte improvvise della storia, un muro che cade, una guerra, un disastro climatico. Tradotto: le previsioni demografiche vanno prese con le pinze. Eppure, la tendenza generale dell’Europa è chiara nel lungo periodo: all’inizio del Novecento, era europeo un abitante del mondo su quattro. Nel 2050 lo sarà uno su quattordici. Di qui al 2050, l’Unione Europea avrà crescita quasi zero (una ventina di milioni, più 3%); l’Africa raddoppierà.
Qualche settimana fa la rivista Lancet ha pubblicato uno studio poderoso sulla popolazione e la fecondità nel mondo. I ricercatori hanno usato un enorme e uniformato database su 195 Paesi dal 1950 al 2017. Prima notizia: in quell’arco di tempo nel mondo il tasso di fecondità si è dimezzato, da 4,7 a 2,4 nati per donna; nello stesso periodo la popolazione è quasi triplicata, passando da 2,6 a 7,6 miliardi. Seconda notizia: il numero di figli per donna è sceso dappertutto, dove più dove meno; resta una differenza enorme, tra il minimo (a Cipro, tasso di fecondità dell’1%) e il massimo (il Niger, 7%). Terza, e più vicina, notizia: ci sono 33 Paesi che hanno perso popolazione, la maggior parte dei quali è in Europa. Il tasso di fecondità di “sostituzione” – ossia quello che, in assenza di immigrazione, garantisce di mantenere la stessa struttura di popolazione da una generazione all’altra – è generalmente stimato dai demografi a 2,1 figli per donna. Nessun Paese europeo lo raggiunge; la media dell’Unione è a 1,6. Quindi è ovvio: nel 2050 la struttura della popolazione europea sarà profondamente mutata. In numeri assoluti, la sua popolazione continuerà a crescere lentamente nel totale (528 milioni e mezzo nel 2050, contro i 515,6 del 2020), e decrescerà in alcuni Stati: tra questi l’Italia, la Germania, la Grecia, la Polonia e tutto l’est Europa. Mentre continueranno a crescere Francia (più 6,5 milioni), Regno Unito (più 10 milioni), Svezia (più 2 milioni) Paesi scandinavi. Queste le previsioni Eurostat, che risentono ovviamente delle ipotesi circa i flussi migratori che si fanno: lo scenario base fa una proiezione basata sui trend degli ultimi 50 anni; per l’Italia, per esempio, questo metodo porta a prevedere una riduzione di popolazione di circa 1,8 milioni di persone nonostante una migrazione netta di 200.000 ingressi al 2050 − per fare un paragone, nel 2017 gli ingressi noti sono stati 85.000. Ma quel che più conta, allarma i demografi e gli scienziati delle finanze, e cambia la faccia delle società, è la struttura per età della popolazione. Che si sposterà tutta in avanti: sempre nell’insieme dei Paesi dell’Unione, nel 2050 la popolazione nella fascia di età tra gli 80 e gli 84 anni sorpasserà quella degli 0-4 anni. La proporzione di popolazione con più di 65 anni sarà del 28,5%. In pratica. “avremo un fabbisogno di forza lavoro di 100 milioni di persone”, taglia corto il sociologo Stefano Allievi in un libretto sintetico, dedicato alle Cinque cose che dovremmo sapere sull’immigrazione (ed. Laterza 2018). In un mondo con più over 65 che under 30, aggiunge Allievi, il problema non è solo di sostenibilità delle pensioni, ma anche di mancanza di innovazioni: “chi inventa, chi studia, chi porta qualcosa di nuovo?”, si chiede il sociologo.
Ma non tutti i Paesi europei hanno scritto nel loro oroscopo demografico la stessa previsione. Il grafico della struttura per età per tutti ha smesso da tempo di essere una piramide ed è diventato più simile a un cilindrotto con la base via via in restringimento e la punta a campanile. Ma c’è differenza da Paese a Paese. Torniamo al rapporto tra ultrasessantacinquenni e popolazione totale: dentro quel 28,5% della media europea al 2050, c’è il primato greco (36,5%), il secondo posto italiano – il 33,8% − e il minimo svedese, con il 22,7%. La Francia, che potrebbe in mezzo secolo sorpassare la Germania per popolazione, avrà nel 2050 “solo” il 25,6% di ultrasessantacinquenni. Dunque se dobbiamo parlare di “inverno demografico” – scrivono Letizia Mencarini e Daniele Vignoli, demografi autori del libro Genitori cercasi (Ube 2018) – è l’Italia ad avere le temperature più basse. Seguita a ruota da Spagna, Germania e Polonia. Mentre il processo di invecchiamento, aggiungono, sarà rallentato in Francia e Svezia, “grazie a una fecondità sostenuta da un maggior numero di figli in media per donna e da contingenti femminili più numerosi”. In altre parole: nei Paesi del sud e dell’est Europa marceranno insieme gli effetti del declino demografico passato, per cui ci saranno meno donne in età fertile, e quelli della bassa fecondità delle giovani. Mentre nei Paesi con inverno demografico meno freddo, o addirittura mite (come la Gran Bretagna, che anche in questo campo fa caso a sé in Europa), è successo che – dice Mencarini – il declino che comunque c’è stato negli anni ’80-’90 è stato poi recuperato: di fatto, “si è trattato di un rinvio, uno spostamento in avanti dell’età della prima gravidanza”, dovuto a ragioni sociali, ambientali, fisiche, culturali, economiche, politiche.
Ecco, la politica. Nei Paesi in cui il “buco” non è stato recuperato, nessuna politica di sistema è stata messa in atto a sostegno dei giovani e delle nascite. Tranne che in un caso, che adesso interessa i demografi: proprio la Germania, dove l’invecchiamento e il declino demografico sono stati messi nell’agenda politica. “Il governo tedesco ha stanziato una grande quantità di fondi”, racconta Mencarini. Non solo: “se ne è cominciato a parlare, ed è servito”. Anche la crisi economica, che ha portato al consolidamento della baby-recession nei Paesi del sud Europa, lì non ha colpito. Fatto sta che il tasso di fecondità in Germania è passato da 1,47 del 2014 a 1,60 nel 2016. “E’ presto per dire se durerà, su queste dinamiche non si può giudicare su pochi anni”, avverte Mencarini. Dunque le politiche sociali servono, se sistemiche e coerenti, non ballerine da un anno all’altro o di pura propaganda – che, in tema di natalità, sconfina facilmente in terreni pericolosi, dalla colpevolizzazione delle donne del fertility day alla retorica dei figli alla patria. Ma comunque, avvertono i demografi, possono mitigare ma non invertire un trend ormai scritto.
Trovate l’articolo nella rivista cartacea di eastwest in vendita in edicola.
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