L’accordo sui migranti tra UE e Turchia continua ad essere celebrato dai propri fautori come un “modello” virtuoso, da replicare anche con altri Paesi. A levare la propria voce dal coro dei sostenitori c’è Angela Merkel, la quale – ormai è storia nota – tra fine 2015 e inizio 2016 era stata costretta a rinnegare la politica delle ‘braccia aperte’, strappando un accordo da dare in pasto agli elettori, e frenare l’arrembaggio delle destre xenofobe anti-migranti. “La situazione oggi è molto migliore di un anno fa. Ma naturalmente resta molto da fare”, ha dichiarato la cancelliera durante un recente intervento a Berlino, in merito al deal sottoscritto a Bruxelles il 18 marzo scorso. Una situazione “migliore” a tal punto da rendere necessario qualche accertamento da parte nostra.
I presupposti
Gran parte di noi probabilmente ricorda l’allarmismo diffuso tra i leader europei a gennaio e febbraio, quando il timore per le vite dei migranti in transito sull’Egeo spianò la strada all’intesa con Ankara, rappresentata all’epoca dal premier Ahmet Davutoğlu, dimessosi dall’incarico a inizio maggio. Ad alimentare quell’immenso esodo di uomini, donne e bambini diretto sulle isole greche, furono i trafficanti turchi attivi nelle loro roccaforti di Bodrum e di Izmir. In soli dodici mesi, tra gennaio e dicembre 2015 le acque dell’Egeo videro transitare più di 800 mila migranti, cui si sommano quelli giunti dal Nord Africa attraverso il Canale di Sicilia, e in misura inferiore sullo stretto di Gibilterra, per un totale di 1.015.078 persone (fonte UNHCR). Un vero e proprio esodo, anzi, il più massiccio esodo di migranti in Europa dall’epoca della Seconda guerra mondiale. Tra gli obbiettivi dichiarati del deal, c’era in primis la necessità di togliere ai trafficanti il controllo dei flussi migratori, ed instaurare un metodo efficace e soprattutto rispettoso della dignità di tutte quelle persone. Sfiancare le rotte clandestine significava anche affrancare centinaia di migliaia di persone dal cappio del lavoro nero, della prostituzione, del mercato clandestino degli organi, soluzioni adottate per riuscire a pagare un pass verso la salvezza in Grecia, quindi in Europa. Non da ultimo, il deal puntava ad abbassare il prezzo in vite di questa maxi mobilitazione illegale, costata 3.771 morti su oltre un milione di passaggi nel 2015 (314 vittime al mese).
I numeri
A conti fatti però, neanche 7 mesi dopo l’entrata in vigore dell’accordo i conti non tornano. In base ai dati UNHCR, il computo dei migranti morti da gennaio a settembre di quest’anno è 3.500, ovvero 291 vittime dei mari al mese, per 302 mila attraversamenti. Un risultato positivo, senza dubbio, se ci limitiamo agli attraversamenti totali (un milione contro trecentomila), ma una vittoria di Pirro se poniamo l’attenzione sul numero delle vittime. Nel 2015, quando l’Egeo era la principale via di transito marina verso l’Europa, l’incidenza dei caduti è stata una vittima ogni 269 migranti transitati. Quest’anno il rapporto è di un morto ogni 86 passaggi, condizione che conferma i timori di marzo, quando sono riuscito ad intervistare Abu Muhammad, uno dei primi quattro trafficanti di esseri umani di Izmir. Le sue previsioni si sono effettivamente avverate: diminuirà il numero assoluto dei passaggi via mare, ma saranno organizzate nuove vie, “più lunghe, più costose e più pericolose”. Per accedervi, i disperati in fuga verso l’Europa dovranno tornare nei laboratori clandestini, le ragazze più giovani continueranno a prostituirsi nell’ombra di Basmane (quartiere di Izmir), a prezzi competitivi rispetto ai bordelli funzionanti in città. Servirà più tempo, del resto i controlli sono maggiori, quindi il servizio più complesso. Da mille euro a tratta si arriverà anche a 7000 euro, assicurava il trafficante. Tanto basta a levare una serie di punti interrogativi sulla validità del deal. Anzi, possiamo tranquillamente parlare di fallimento, almeno per quanto riguarda la salvaguardia delle vite dei migranti, condizione ritenuta essenziale alla vigilia della firma.
Una macchina mai avviata
Il flop riguarda anche il meccanismo di redistribuzione dei migranti promesso ad inizio primavera, ma di fatto rimasto in una condizione di stallo sino ad oggi. Con queste condizioni, chi resta bloccato in Grecia cerca di tornare in Turchia, chi si trova in Turchia prova in tutti i modi una via per l’Europa. In estrema sintesi è la situazione venuta a crearsi negli ultimi mesi. “Almeno in Turchia riusciamo a trovare un lavoro. Siamo sfruttati, ma comunque ci pagano” è la risposta avuta in più occasioni da migranti siriani rimasti incastrati nel limbo greco, e intenzionati a tornare dall’altra parte dell’Egeo. Malgrado lo sgombero dei campi ritenuti ‘inumani’ e il trasferimento di migliaia di persone nei centri di accoglienza governativi, le condizioni di vita in Grecia sono progressivamente peggiorate. Colpa della lentezza del processo di pre-registrazione e redistribuzione, che richiede mesi prima di decretare se, e in quale Paese europeo saranno destinati gli interessati. Colpa delle estenuanti attese in località periferiche della Grecia, nell’inettitudine totale, e con libertà di movimento limitata dalle distanze e dalla necessità di utilizzare mezzi a pagamento. Colpa anche dell’incolmabile divario culturale che per molti migranti rende preferibile il contesto islamico turco, senza contare che nel sud del Paese risiedono numerose comunità di lingua e cultura araba. Non da ultimo ci sono le condizioni degradate dei campi governativi allestiti da Atene, in alcuni casi peggiori di quelle viste nelle tendopoli indipendenti smantellate tra maggio e giugno. In Grecia mancano tecnici, interpreti, medici, avvocati, poliziotti e soldi, ma a Bruxelles si inneggia al successo e si vorrebbe replicare il modello.
Esempio imperfetto
C’è poi il paradosso insito nelle politiche migratorie adottate tra il 2015 e il 2016 in Europa. I Paesi dell’Unione hanno speso decenni a esaltare gli alti standard applicati in materia di asilo, per poi agire in senso contrario. L’accordo con la Turchia ne è un esempio, e inaugura una nuova fase nell’approccio di Bruxelles con le nazioni esterne. Dal 18 marzo infatti, l’impegno di queste ultime a sostegno di chi fugge da violenze e miseria non è più scontato. Può diventare un servizio in outsourcing: accoglienza dei migranti in cambio di danaro – il precedente turco da 6 miliardi è un buon punto di partenza – o concessioni sui visti, ma la lista rischia di allungarsi. Poi viene l’impatto sui diritti fondamentali dell’uomo. Se l’Europa non è disposta ad accogliere i migranti, o solo una minima parte di questi, perché gli altri Paesi dovrebbero sobbarcarsi l’onere di garantire protezione? Perché non sloggiarli verso nord, sulle coste mediterranee o a ridosso del mare Egeo? Perché allora non esigere il prezzo dell’accoglienza? Meglio non citare la Convenzione di Ginevra, che in Europa ormai pesa quanto il messaggio racchiuso nei biscotti della fortuna. Conti alla mano, nel mondo ci sono 21 milioni di rifugiati – e 65,3 milioni di sfollati –, concentrati soprattutto nei Paesi poveri o in via di sviluppo, con risorse nettamente inferiori rispetto all’Europa. Pertanto, se il Vecchio Continente è disposto a pagare pur di scongiurare ‘l’invasione dei disperati’, tema centrale nel dibattito politico europeo, tanto vale replicare il modello adottato con Ankara. Migranti non più come masse di disperati da sfamare e proteggere dunque, ma riqualificati – dai Paesi ospitanti –, trasformati in capitale, merce di scambio da mettere sul piatto della bilancia per definire il prezzo del servizio. O più semplicemente un’arma non convenzionale con cui aumentare o diminuire la pressione sui confini europei.
La strada in tal senso sembra tracciata. Ancora una volta in testa alla fila c’è la Merkel, che a fine settembre ha ribadito la volontà di replicare il deal turco con altri Paesi affacciati sul Mediterraneo, a partire da Tunisia ed Egitto. Soldi in cambio di accoglienza dunque, l’importante – afferma la cancelliera – è “creare vie legali all’immigrazione” oppure “offrire una buona accoglienza nelle vicinanze delle patrie di origine”. Un successo annunciato? L’esperienza recente sembra dire il contrario.
Gran parte di noi probabilmente ricorda l’allarmismo diffuso tra i leader europei a gennaio e febbraio, quando il timore per le vite dei migranti in transito sull’Egeo spianò la strada all’intesa con Ankara, rappresentata all’epoca dal premier Ahmet Davutoğlu, dimessosi dall’incarico a inizio maggio. Ad alimentare quell’immenso esodo di uomini, donne e bambini diretto sulle isole greche, furono i trafficanti turchi attivi nelle loro roccaforti di Bodrum e di Izmir. In soli dodici mesi, tra gennaio e dicembre 2015 le acque dell’Egeo videro transitare più di 800 mila migranti, cui si sommano quelli giunti dal Nord Africa attraverso il Canale di Sicilia, e in misura inferiore sullo stretto di Gibilterra, per un totale di 1.015.078 persone (fonte UNHCR). Un vero e proprio esodo, anzi, il più massiccio esodo di migranti in Europa dall’epoca della Seconda guerra mondiale. Tra gli obbiettivi dichiarati del deal, c’era in primis la necessità di togliere ai trafficanti il controllo dei flussi migratori, ed instaurare un metodo efficace e soprattutto rispettoso della dignità di tutte quelle persone. Sfiancare le rotte clandestine significava anche affrancare centinaia di migliaia di persone dal cappio del lavoro nero, della prostituzione, del mercato clandestino degli organi, soluzioni adottate per riuscire a pagare un pass verso la salvezza in Grecia, quindi in Europa. Non da ultimo, il deal puntava ad abbassare il prezzo in vite di questa maxi mobilitazione illegale, costata 3.771 morti su oltre un milione di passaggi nel 2015 (314 vittime al mese).