Mentre Brexit ha fatto fuori già due Premier, il neopartito di Farage ha ottenuto il 32,6% alle Europee con un obiettivo dichiarato: destabilizzare Ue e Uk.
Nella ormai infinita sequenza di cigni neri che è diventata la politica britannica si innesta ora la corsa alla successione a Theresa May. Fra i molti effetti collaterali di Brexit c’è l’aver riportato al centro dell’attenzione pubblica le contraddizioni fondanti della democrazia più antica d’Europa, e una è il sistema di selezione del premier in caso di dimissioni del precedente. Prima ancora di verificarsi, Brexit ne ha già azzoppati due: ora la May, prima di lei David Cameron, la cui brillante carriera politica si è infranta sul risultato del referendum a giugno 2016. Come allora, la successione resta una questione interna al partito di governo; una scelta così cruciale per il futuro di tutto il paese viene affidata, invece che a nuove elezioni, a una prima selezione da parte dei 313 parlamentari conservatori – che porterà a individuare i due candidati con maggiore sostegno a Westminster – seguita da una votazione fra i circa 165mila iscritti al partito.
Risultati a fine luglio, ma c’è un super favorito: l’eterno Boris Johnson, da sempre considerato un predestinato per educazione (Eton-Oxford, binomio obbligatorio dell’élite politica conservatrice), ambizione, classe sociale e amicizie. Ha legato le sue sorti politiche al fronte del Leave e da allora la sua stella si è offuscata: è stato un Ministro degli Esteri disastroso e un membro del governo sleale con il primo ministro, di cui ha regolarmente sabotato ogni azione negoziale, tanto da conquistarsi il disprezzo di molti colleghi. Ma la gestione fallimentare di Brexit da parte di Theresa May lo ha riportato in vetta: molti nel partito lo considerano “malleabile”, cioè abbastanza opportunista da accettare, una volta a Downing Street, i necessari compromessi. Ed è di gran lunga il più popolare fra gli elettori conservatori, che vedono con indulgenza le sue continue gaffes e la sua evidente impreparazione su dossier essenziali.
Una popolarità cruciale per tentare di salvare quello che resta del partito conservatore, che tre anni di faide intestine sotto la gestione May hanno ridotto ai minimi termini. Con un disastroso 9.1%, il partito di governo è arrivato quinto alle elezioni europee, perfino dopo i Verdi, e ad eventuali politiche rischia una nuova umiliazione. La minaccia esistenziale viene da destra: è il neo-partito di Nigel Farage, quel Brexit Party che, fondato solo a fine novembre 2018, alle europee di fine maggio ha trionfato con il 31.6% dei voti.
Per riconquistare quegli elettori, Boris ha, comprensibilmente, scelto di ostentare la linea dura. Ha dichiarato che chiederà di riaprire il trattato di recesso già firmato con Bruxelles, che è pronto ad una uscita senza accordo il 31 ottobre, che in questo caso il Regno Unito non pagherà i 39 miliardi concordati come prezzo del divorzio. Strategia politicamente obbligata in risposta alla grande mutazione in corso nella politica britannica contemporanea: il consenso non si ottiene più né al centro né intorno ad una proposta politica articolata, ma quasi esclusivamente sui due poli estremi Leave o Remain, senza più spazio per i compromessi. Ma si tratta di promesse da campagna elettorale, molto difficili da mantenere una volta a Downing Street. Lo spiega John Curtice, guru delle previsioni elettorali: “Qualsiasi primo ministro che spinga per un no-deal dovrà scontrarsi con l’opposizione del parlamento, il prevedibile collasso del proprio governo, ed elezioni anticipate. Scenario temutissimo dai Conservatori ma auspicato dal Labour di Jeremy Corbyn, che ha buone possibilità di vincerle. Ma è difficile che i laburisti ottengano la maggioranza: si dovrebbero alleare con qualche altro partito, come i Lib-Dem, o magari gli indipendentisti scozzesi. Che in cambio del sostegno potrebbero chiedere la concessione di un nuovo referendum per l’indipendenza della Scozia”. Insomma, un parlamento bloccato come quello che ha tolto l’aria a Theresa May, ostaggio di 10 parlamentari del Dup nord-irlandese.
E, soprattutto, una situazione che favorisce il Brexit Party di Farage: qualsiasi stallo dei partiti tradizionali equivale al cadavere del nemico che passa sul fiume, mentre Nigel aspetta sulla riva. E infatti il gradimento del partito di Farage non fa che crescere anche in vista di eventuali politiche.
A giugno un sondaggio YouGov dava il Brexit Party al 26%; Lib-Dem e Labour entrambi al 20%, Conservatori intorno al 18. Se oggi una maggioranza pro Farage a Westminster – e un Farage primo ministro, o almeno kingmaker – appare ancora inconcepibile, i rapporti di forza potrebbero essere molto diversi in autunno. Ed è una prospettiva allarmante, data la natura di questa nuova creatura politica. Perché il Brexit Party è, prima di tutto, un’azienda. Per la precisione una LTD, società a responsabilità limitata di cui dal 29 marzo 2019 Nigel Farage è uno dei due direttori insieme a Richard Tice, ricco immobiliarista e già presidente del partito. Il 9 maggio, solo una settimana dopo gli esiti di elezioni amministrative fallimentari per i Tories, Farage diventa l’unico dirigente della società “with significant control”, e cioè con “la prerogativa, direttamente o indirettamente, di nominare o far decadere la maggioranza dei membri del consiglio direttivo”. Secondo un esperto di diritto societario che abbiamo consultato, del Brexit Party Farage è, di fatto, il padrone.
Non lo nasconde: in una intervista al Sunday Telegraph ha dichiarato: “Guido un’azienda, non un partito”. Come per un’azienda, l’obiettivo è raggiungere risultati. E quindi: verticismo assoluto, nessun corpo intermedio, niente organi direttivi o probiviri, nessun contrappeso democratico al suo potere assoluto. E una struttura liquida con un precedente a noi familiare. “Ho seguito fin dall’inizio la crescita del movimento 5Stelle, ne sono totalmente affascinato”. Come per I 5Stelle, la spinta anti-establishment è la giustificazione ideologica per bypassare certi passaggi: se gli assetti democratici attuali sono inceppati, bisogna scavalcarli. E quindi: nessun manifesto, nessuna vera e propria campagna di tesseramento ma una registrazione a pagamento: al posto delle strutture locali, una piattaforma digitale. Come per i 5 stelle, democrazia diretta al posto di quella rappresentativa “Definiremo le nostre politiche e la nostra futura direzione sulla base delle indicazioni dei nostri sostenitori” ha spiegato Farage ai microfoni di LBC radio.
Su tutto, meccanismi di finanziamento poco chiari, con due canali principali oltre alle quote di registrazione: maxi-donazioni anonime o micro-donazioni attraverso un conto PayPal, oggi sotto osservazione della Commissione Elettorale per presunti illeciti (per esempio, finanziamenti da entità straniere, non consentiti dalla legge elettorale britannica).
Il primo test elettorale è stata la consultazione suppletiva a Peterbourough ai primi di giugno: roccaforte Tory, conquistata nel 2017 dal Labour con una parlamentare poi costretta a dimettersi per aver mentito su una multa per eccesso di velocità. Il Labour ha tenuto il seggio per poco più di 600 voti, con il Brexit Party secondo. Molti osservatori hanno dato di questo risultato una lettura conservatrice, ricalcata sui precedenti dell’Ukip, fortissimo alle europee e poi sfarinatosi alle politiche. Ma il rischio è di sottovalutare il contesto: il Brexit Party non è solo un partito anti-europeo. È la creatura personale di un uomo politico capace di capitalizzare un sentimento anti-establishment che si è radicalizzato negli ultimi tre anni a causa dello stallo su Brexit, che di conseguenza va oltre la tradizionale ostilità euroscettica e che ha ormai, come obiettivo dichiarato, la destabilizzazione di equilibri costituiti sia a Bruxelles che nel Regno Unito. A partire dalla distruzione del partito conservatore.
Con un’ombra gigantesca: l’appoggio dichiarato all’ipotesi di no deal del Presidente degli Stati Uniti Donald Trump, che di Farage è amico personale tanto da incontrarlo a cena presso l’Ambasciata americana a Londra durante la sua recente visita di stato.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di luglio/agosto di eastwest.
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Mentre Brexit ha fatto fuori già due Premier, il neopartito di Farage ha ottenuto il 32,6% alle Europee con un obiettivo dichiarato: destabilizzare Ue e Uk.
Nella ormai infinita sequenza di cigni neri che è diventata la politica britannica si innesta ora la corsa alla successione a Theresa May. Fra i molti effetti collaterali di Brexit c’è l’aver riportato al centro dell’attenzione pubblica le contraddizioni fondanti della democrazia più antica d’Europa, e una è il sistema di selezione del premier in caso di dimissioni del precedente. Prima ancora di verificarsi, Brexit ne ha già azzoppati due: ora la May, prima di lei David Cameron, la cui brillante carriera politica si è infranta sul risultato del referendum a giugno 2016. Come allora, la successione resta una questione interna al partito di governo; una scelta così cruciale per il futuro di tutto il paese viene affidata, invece che a nuove elezioni, a una prima selezione da parte dei 313 parlamentari conservatori – che porterà a individuare i due candidati con maggiore sostegno a Westminster – seguita da una votazione fra i circa 165mila iscritti al partito.