Una fiammata, e subito una tregua. Ma la paura, quella resta alta, perché nella regione del Nagorno-Karabakh – enclave armena (cristiana e filo-russa) all’interno dell’Azerbaijan (musulmano e filo-turco, anche se in buoni rapporti con Mosca) – la conflittualità congelata da ventidue anni di stallo è pronta a deflagrare da un momento all’altro. Specialmente se qualcuno, anche in maniera occulta, si mette a soffiare sul fuoco.
Storicamente l’inclusione del Nagorno-Karabakh all’interno dell’Azerbaijan è imputabile a una pensata – contestata, ma inutilmente – di Stalin negli anni ’20 del secolo scorso. Sessant’anni di pax sovietica hanno tenuto sotto il tacco di Mosca le pretese e le aspirazioni dei popoli caucasici ma, nel 1988, quando l’Urss iniziava a sgretolarsi dall’interno, le violenze nella regione sono esplose, causando oltre 30 mila morti e un milione di sfollati. All’iniziale pulizia etnica di ambo le parti seguirono le dichiarazioni di indipendenza, dell’Azerbaijan nel 1991 e del Nagorno-Karabakh nel 1992. Baku tentò di riconquistare con la forza il territorio perduto ma emerse sconfitto dallo scontro con l’Armenia. Le armi furono messe a tacere nel 1994, grazie allo sforzo della comunità internazionale, con gli Accordi di Pace di Bishkek. Il Nagorno-Karabakh è de facto una repubblica autonoma, anche se non riconosciuta dalla comunità internazionale. Da allora rivendica il proprio diritto all’autodeterminazione (anche se lo status quo di fatto già la favorisce). Da allora l’Azerbaijan lamenta la mutilazione del proprio territorio, potendo in questo contare sul supporto di Ankara (che pone il ritiro dalla regione come precondizione per stabilire relazioni diplomatiche l’Armenia). Sulla delicata situazione è incaricato di vigilare, e di cercare di mediare un accordo, il Gruppo di Minsk, organo istituito dall’OSCE nel 1992 e guidato dalla co-presidenza di Russia, Francia e Stati Uniti. Finora non sono stati ottenuti risultati significativi. Anzi, periodicamente le violenze si riaccendono, anche se mai come in questi ultimi giorni, con decine di caduti da ambo i lati nei pesanti scontri avvenuti dal 1 al 5 aprile
Uno degli elementi più preoccupanti è la corsa al riarmo, speculare nei due Paesi, che ha caratterizzato l’ultimo decennio e sottratto risorse ad altre possibili voci di investimento (come sviluppo economico, sanità o istruzione). “Sostenuto dall’abbondanza di petrolio e gas, l’Azerbaigian ha aumentato la sua spesa militare più di venti volte tra il 2004 e il 2014”, spiega Magdalena Grono, direttrice del programma Europa e Centro Asia per l’International Crisis Group. “Il presidente azero IlhamAliyev si è vantato che la spesa per la Difesa nel 2014è stata due volte l’intero bilancio statale dell’Armenia”. In questa escalation il Cremlino ha ingrassato di materiale bellico entrambi i contendenti.“L’Azerbaijan ha comprato la maggior parte delle armi dalla Russia, con cui storicamente mantiene buoni rapporti”, prosegue Grono. “L’Armenia, tradizionale alleato della Russia, ha cercato di tenere il passo (rifornendosi sempre da Mosca, che in cambio ha ottenuto il controllo su importanti infrastrutture energetiche e la possibilità di posizionare due basi militari strategiche nel Paese ndr.), pur essendo economicamente indebolita dalla mancanza di sviluppo economico e dalle frontiere chiuse con la Turchia e l’Azerbaigian. In ogni caso le forze di etnia armena hanno mantenuto il controllo delle alture strategiche nei dintorni del Nagorno-Karabakh, il che gli dà un forte vantaggio tattico e ha reso lo sbilanciamento complessivo in termini di armamenti meno”.
Considerata questa situazione di stallo armato, in cui sia Armenia che Azerbaijan sono fortemente dipendenti dalla stessa super-potenza – la Russia -, la domanda che ha preso a circolare in ambienti diplomatici dopo l’esplosione delle violenze di inizio aprile è perché la polveriera del Nagorno-Karabakh ha ripreso a sprigionare pericolose scintille. Da un punto di vista razionale, l’Azerbaijan non può sperare di soggiogare militarmente la regione su cui ha perso il controllo senza affrontare una lunga e dispendiosa guerra. In un momento in cui il greggio è ai minimi storici, e in cui la Russia – dovendo scegliere – appoggerebbe l’Armenia cristiana contro l’Azerbaijan turcomanno (e sostenuto politicamente da Ankara, che parla apertamente di “un popolo, due Stati”), la guerra aperta non sembra una scelta sensata. L’Armenia dal canto suo ha tutto l’interesse al mantenimento dello status quo, che la vede in situazione di vantaggio. Ancora lo scorso 21 marzo Olena Melkonian, esperta di Caucaso del Centro Studi Internazionali, scriveva: “Ad oggi, è molto più plausibile la continuazione di una politica volta al mantenimento dello status quo, poiché un ulteriore escalation della violenza porterebbe ad un disastro degli equilibri geopolitici dell’area”. E quindi, cui prodest?
Una tesi che circola in ambito Nato è che dietro la recente fiammata di violenze (e nel suo immediato spegnimento) ci sia una manovra del Cremlino che, palesando in questo modo la propria assoluta centralità in qualsiasi dinamica nell’area, mira ad allontanare Baku da Ankara. Putin otterrebbe così un duplice risultato: isolare ancor di più Erdogan – con cui ha ingaggiato un duro scontro, da quando le agende dei rispettivi Paesi sono entrate in conflitto nello scenario siriano –, allontanandolo da un Paese che è fondamentale per l’approvvigionamento energetico della Turchia (e con cui condivide legami etnici, politici e religiosi); e acquisire un alleato prezioso – l’Azerbaijan, a cui la Russia potrebbe concedere qualcosa a livello geopolitico, penalizzando un’Armenia che ha poco da offrire da un lato e una quasi totale dipendenza da Mosca dall’altro – in vista di una possibile futura competizione ancor più serrata con Ankara. Il tutto in un momento in cui la Turchia ha poche chance di reagire, considerato l’impegno sul fronte siriano, su quello dei profughi e sulla guerra interna contro il Pkk curdo. Una seconda tesi sostiene invece che ci sia lo zampino proprio della Turchia dietro la recente condotta aggressiva dell’Azerbaijan. Erdogan starebbe mirando a destabilizzare il Caucaso, costringendo Mosca alla trattativa. In questo caso Ankara avrebbe una merce di scambio importante con la Russia da poter spendere anche nella partita sulla Siria.
In entrambi i casi gli osservatori occidentali esprimono una grande preoccupazione. Nel Caucaso sono mescolate popolazioni cristiane e musulmane, slave, iraniche, armene e turcomanne. Un’eventuale esplosione di violenza settaria in una regione anche piccola rischierebbe di scatenare una reazione a catena che potrebbe destabilizzare diversi Paesi. A quel punto il caos, tracimato dal Medio Oriente ai confini meridionali dell’ex Unione Sovietica, esploderebbe e le sue schegge impazzite (potenzialmente affascinate da un’affiliazione col jihadismo internazionale) potrebbero arrivare anche in Occidente.
Storicamente l’inclusione del Nagorno-Karabakh all’interno dell’Azerbaijan è imputabile a una pensata – contestata, ma inutilmente – di Stalin negli anni ’20 del secolo scorso. Sessant’anni di pax sovietica hanno tenuto sotto il tacco di Mosca le pretese e le aspirazioni dei popoli caucasici ma, nel 1988, quando l’Urss iniziava a sgretolarsi dall’interno, le violenze nella regione sono esplose, causando oltre 30 mila morti e un milione di sfollati. All’iniziale pulizia etnica di ambo le parti seguirono le dichiarazioni di indipendenza, dell’Azerbaijan nel 1991 e del Nagorno-Karabakh nel 1992. Baku tentò di riconquistare con la forza il territorio perduto ma emerse sconfitto dallo scontro con l’Armenia. Le armi furono messe a tacere nel 1994, grazie allo sforzo della comunità internazionale, con gli Accordi di Pace di Bishkek. Il Nagorno-Karabakh è de facto una repubblica autonoma, anche se non riconosciuta dalla comunità internazionale. Da allora rivendica il proprio diritto all’autodeterminazione (anche se lo status quo di fatto già la favorisce). Da allora l’Azerbaijan lamenta la mutilazione del proprio territorio, potendo in questo contare sul supporto di Ankara (che pone il ritiro dalla regione come precondizione per stabilire relazioni diplomatiche l’Armenia). Sulla delicata situazione è incaricato di vigilare, e di cercare di mediare un accordo, il Gruppo di Minsk, organo istituito dall’OSCE nel 1992 e guidato dalla co-presidenza di Russia, Francia e Stati Uniti. Finora non sono stati ottenuti risultati significativi. Anzi, periodicamente le violenze si riaccendono, anche se mai come in questi ultimi giorni, con decine di caduti da ambo i lati nei pesanti scontri avvenuti dal 1 al 5 aprile
Uno degli elementi più preoccupanti è la corsa al riarmo, speculare nei due Paesi, che ha caratterizzato l’ultimo decennio e sottratto risorse ad altre possibili voci di investimento (come sviluppo economico, sanità o istruzione). “Sostenuto dall’abbondanza di petrolio e gas, l’Azerbaigian ha aumentato la sua spesa militare più di venti volte tra il 2004 e il 2014”, spiega Magdalena Grono, direttrice del programma Europa e Centro Asia per l’International Crisis Group. “Il presidente azero IlhamAliyev si è vantato che la spesa per la Difesa nel 2014è stata due volte l’intero bilancio statale dell’Armenia”. In questa escalation il Cremlino ha ingrassato di materiale bellico entrambi i contendenti.“L’Azerbaijan ha comprato la maggior parte delle armi dalla Russia, con cui storicamente mantiene buoni rapporti”, prosegue Grono. “L’Armenia, tradizionale alleato della Russia, ha cercato di tenere il passo (rifornendosi sempre da Mosca, che in cambio ha ottenuto il controllo su importanti infrastrutture energetiche e la possibilità di posizionare due basi militari strategiche nel Paese ndr.), pur essendo economicamente indebolita dalla mancanza di sviluppo economico e dalle frontiere chiuse con la Turchia e l’Azerbaigian. In ogni caso le forze di etnia armena hanno mantenuto il controllo delle alture strategiche nei dintorni del Nagorno-Karabakh, il che gli dà un forte vantaggio tattico e ha reso lo sbilanciamento complessivo in termini di armamenti meno”.