Regione a maggioranza musulmana con aspirazioni autonomiste, lo Xinjiang è da tempo oggetto di attenzioni speciali da parte di Pechino. Che ora combina raccolta dati e intelligenza artificiale per rafforzare il controllo, usando anche modelli predittivi stile Minority Report
Lo Xinjiang è una delle regioni più intriganti della Cina. Confina con otto stati, ed è stato storicamente un crocevia fondamentale della Via della seta, con le sue strade che immaginiamo ancora oggi polverose, percorse da avventurieri, esploratori, farabutti e religiosi. In questa regione risiedono le origini della cultura musulmana, alcune città solo a nominarle – Kashgar, ad esempio – scatenano sentimenti legati a commerci, scambi, vite straordinarie. Nelle città della regione i mercati all’aperto, l’odore della carne d’agnello e delle spezie, catapultano chiunque in luoghi arabeggianti. I cinesi della regione hanno gli occhi azzurri o barbe lunghe; attraverso lo Xinjiang, le sue città, monti e il deserto, si può ammirare la grandezza paesaggistica, storica, culturale ed etnica della Cina.
Fino a poco tempo fa lo Xinjiang era una regione a schiacciante maggioranza musulmana. L’etnia degli uiguri viveva la propria “cinesità” con fastidio, per una sorta di intromissione da parte di Pechino sui costumi e nei commerci. Considerati in tutto il Paese dei poco di buono, quando non ladri e spacciatori, gli uiguri non hanno mai avuto vita facile in Cina. Da quando poi le istanze autonomiste hanno finito per confluire – benché i numeri non siano affatto chiari – nella più generale ondata jihadista, Pechino ha stretto ancora di più le maglie. Chiedendo alla comunità internazionale il riconoscimento di terrorismo internazionale, Pechino ha braccato i sospetti jihadisti e ha tentato di soffocare l’afflato religioso attraverso l’arma che preferisce: i soldi.
Una campagna, in atto da tempo e chiamata “Go West”, ha invitato imprese e aziende cinesi a investire in quella regione strategica per il governo e per i piani futuri di Xi Jinping e la sua nuova via della Seta. Insieme a soldi, strade – non ovunque – e commercio, sono arrivati anche gli han, quelli che noi chiamiamo cinesi e che costituiscono l’etnia maggioritaria in Cina. L’intento del Pcc è chiaro: favorire sviluppo e benessere sperando di eliminare così cause di insoddisfazione. Anche per questo nella zona, di recente, è stato lanciato un altro progetto di sviluppo che dovrebbe eliminare ingenti sacche di povertà nella regione. Ma non tutto è funzionato: le strade, le infrastrutture, i mercati aperti sembrano essere goduti solo dagli han.
Oltre a una sorta di ripopolamento, un ulteriore misura è stata chiudere lo Xinjiang all’esterno. Durante le proteste e gli scontri del 2009 è stato addirittura isolato dal resto del Paese. All’interno, lo Stato cinese ha sottolineato la propria presenza attraverso controlli e repressione sempre più dura: divieto di nomi musulmani, divieto di barbe lunghe, schedatura del Dna e di altri dati biometrici, limiti all’ottenimento del passaporto.
Parlando con qualunque uiguro si incontri in Cina, sarà facile trovarsi di fronte a racconti di soprusi o prevaricazioni – quando non direttamente episodi di violenze, incarcerazioni, denunce – da parte di cinesi han o da parte dello Stato cinese. E ora, lo Xinjiang sembra essere destinato a diventare un luogo che, oltre a formare i futuri dirigenti cinesi – Xinjiang e Tibet sono considerate due prove del fuoco per chi vuole fare carriera all’interno del partito comunista -, sarà protagonista nello sperimentare le più moderne forme di controllo sociale che la Cina sta mettendo in campo con la sua spinta su innovazione e tecnologia.
Se infatti le risorse di Pechino potrebbero servire a migliorare la qualità della vita dei propri cittadini, è indubbio che Big Data e intelligenza artificiale possano diventare una straordinaria arma di controllo, prevenzione ed eventualmente di repressione. Nei giorni scorsi Human Right Watch ha denunciato il programma di raccolta dati in atto nella regione cinese: una sorta di Minority Report con tanto di modelli predittivi – e non i precog a bagno del film di Spielberg: dunque qualcosa di reale, di vero -.
«Per la prima volta, siamo in grado dimostrare l’uso, da parte del governo cinese, di big data e di una predicting policy che non solo viola in maniera evidente i diritti alla privacy ma autorizza i pubblici ufficiali a procedere ad arresti arbitrari», ha spiegato Maya Wang, ricercatrice di Human Rights Watch. «Le persone nello Xinjiang non possono opporre resistenza o contrastare la crescente intrusione nella loro quotidianità. Molti non sanno nulla di questo programma black box e non sanno come funzioni». Secondo l’organizzazione, il ricorso alle tecnologie più moderne ha consentito alle autorità di attuare controlli più profondi.
A corredo ci sono alcuni dati: dall’aprile 2016 decine di migliaia di uiguri e membri di altre minoranze sarebbero stati spediti nei centri di educazione politica. Da agosto 2016, prosegue Human Rights Watch, l’Ufficio di pubblica sicurezza dello Xinjiang ha confermato l’avvio della Piattaforma integrata per le operazioni congiunte, un sistema che riceve dati sui cittadini. Le fonti sono fondamentalmente le telecamere di sorveglianza – alcune dotate di tecnologia per il riconoscimento facciale – piazzate praticamente ovunque e gli strumenti in grado di tracciare gli spostamenti e le connessioni di smartphone e computer in relazione alle reti wi-fi. A completare il quadro, spesso, possono provvedere numeri di targa e di documenti esibiti in controlli di routine.
@simopieranni
Regione a maggioranza musulmana con aspirazioni autonomiste, lo Xinjiang è da tempo oggetto di attenzioni speciali da parte di Pechino. Che ora combina raccolta dati e intelligenza artificiale per rafforzare il controllo, usando anche modelli predittivi stile Minority Report