Tensione tra Ucraina e Russia alle stelle, e poi silenzio. Gli incidenti veri o supposti al «confine» possono essere un casus belli. Oppure no. Dopo essersela presa con la forza, cos’altro può volere Putin dalla Crimea?
Veri o presunti sabotatori che siano, gli ucraini arrestati dall’Fsb sul confine de facto tra Crimea occupata e resto dell’Ucraina fanno il gioco della narrativa del Cremlino. Non si può serenamente escludere che gruppi autonomi di nazionalisti, con o senza il benestare delle autorità ucraine, avessero interesse a portare lo scompiglio in Crimea: è già successo in passato con i sabotaggi ai tralicci dell’alta tensione che alimentano la rete elettrica della penisola. Né si può escludere che gli agenti dell’Fsb abbiano «prelevato» dei cittadini ucraini da usare come capri espiatori: è già successo in passato con la guardia di frontiera estone, Eston Kohver. Male che vada, Mosca avrà nelle mani un paio di altri prigionieri da scambiare con Kiev.
Se le cose si fossero fermate qui, sarebbe stato l’ennesimo episodio di confine, buono per trattative e schermaglie a livello di funzionari e ufficiali militari. Ma poi è intervenuto Putin, e questo è il vero campanello di allarme. Le sue parole a poche ore dai fatti hanno portato la tensione a livelli siderali. Con un vocabolario che manco ai tempi della Maidan, Putin ha detto che «quelli che hanno preso il potere a Kiev, e ancora lo detengono, hanno scelto la pratica del terrore invece di trovare una soluzione pacifica. Non lasceremo passare tutto questo».
Allora, cosa vuole veramente Putin?
1. Invasione su larga scala. È molto improbabile. E avrebbe davvero poco senso, soprattutto in questo momento.
Nonostante l’immobilismo occidentale, che continua a fare grandi sconti alla politica revanscista di Putin, una guerra di conquista dell’Ucraina avrebbe un costo politico troppo alto per la Russia. In più, non se ne vede nemmeno la reale utilità. L’obiettivo attualmente perseguito da Mosca – destabilizzare l’Ucraina e impedirne il completo allineamento a Occidente, incluso l’ingresso nella Nato – si può dire ormai acquisito con la guerra che si continua a combattere in Donbass. L’interesse per la conquista territoriale, se mai c’è stato, è morto insieme al progetto Novorossija. Così come l’idea del corridoio terrestre che unisse la Crimea ai territori separatisti del Donbass e, quindi, alla Russia. Idea forse mai davvero perseguita e comunque di sicuro superata dal più redditizio (dal punto di vista propagandistico) ponte sullo stretto di Kerch. È vero, Putin ha detto che l’Ucraina sa facendo di tutto «per provocare un conflitto», ma è improbabile vedere i carri armati russi marciare su Kiev.
2. Conquista di una zona cuscinetto. Avrebbe ugualmente un costo politico alto per Putin, ma anche un senso. L’attuale confine de facto della Crimea coincide con quello che fino a due anni fa era il limite amministrativo di una regione dell’Ucraina, sull’istmo di Perekop. È lì che si sono fermati gli «omini verdi» nei giorni dell’annessione manu militari. Gran parte delle infrastrutture vitali, però, sono al di là del confine, in territorio controllato da Kiev. La centrale idroelettrica di Kakhova, nella regione Kherson, fornisce corrente all’intera rete della penisola, mentre il canale della Crimea del nord porta l’acqua del Dnipro nelle aride terre fino allo stretto di Kerch. Lo scorso inverno gruppi di nazionalisti ucraini hanno fatto saltare in aria i tralicci dell’alta tensione, lasciando la penisola letteralmente al buio per settimane. Le azioni di sabotaggio, in territorio ucraino, hanno mostrato tutta la fragilità della penisola. Quando Putin ha detto che quello dell’Ucraina è «un gioco molto pericoloso e noi faremo di tutto per proteggere le infrastrutture e i nostri cittadini» non ha mica specificato se si riferiva solo alle infrastrutture al di qua del «confine».
Un’azione militare veloce e circoscritta per creare una zona cuscinetto a nord della Crimea, mettendo in sicurezza centrali elettriche, reti idriche e gasdotti, avrebbe certamente più senso di un’invasione su vasta scala. E potrebbe anche giustificare l’arrivo in questi giorni sulla penisola di decine di mezzi blindati e dei nuovi sistemi missilistici S-400.
3. Mandare Minsk-2 gambe all’aria. Non ci vuole molto a far saltare gli agonizzanti accordi di pace di Minsk. I negoziati sono già da tempo impantanati sulle improbabili elezioni in Donbass e scricchiolano ogni giorno sotto le continue violazioni della tregua. Il rimpallo di responsabilità è diventato un rumore di sottofondo, che nessuno sente più. Lo spostamento dell’azione dal fronte in Donbass al confine con la Crimea ha generato un’eco mediatica enorme: è sotto gli occhi di tutti. Putin sembra poi aver piantato l’ultimo chiodo alla bara di Minsk quando ha detto che «L’incontro col gruppo Normandia in queste condizioni non ha senso». Si può dire che sia un obiettivo già raggiunto.
Putin si fermerà qui? È possibile, anche perché si tratterebbe di un’azione proporzionata alla presunta aggressione subita. Gli altri Paesi del gruppo Normandia avrebbero poco da ridire e ripartire da zero può portare solo vantaggi alla Russia. In più, far saltare il tavolo di pace addebitando tutta la colpa all’ucraina ha un altro fine:
4. Screditare l’Ucraina e far cadere le sanzioni. Nel suo discorso a caldo dopo gli arresti dei presunti sabotatori ucraini, Putin si è rivolto anche ai Paesi che hanno imposto le sanzioni alla Russia. «Voglio rivolgermi ai nostri partner americani ed europei. Quelli che sostengono il regime di Kiev devono decidere cosa vogliono. Vogliono veramente la pace? Perché se la vogliono allora devono esercitare le dovute pressioni sul governo di Kiev», ha detto. È un ribaltamento della realtà, che cerca di mettere l’Ucraina nelle vesti dell’aggressore: non è più Mosca ad occupare illegalmente un pezzo di Ucraina, ma Kiev a «perseguire la via del terrore» contro la Russia e i russi. È una narrativa che può facilmente far presa sul fronte contrario alle sanzioni, soprattutto europeo. Ma anche negli Usa in caso di vittoria alle presidenziali di Donald Trump, cosa auspicata al Cremlino. Un altro obiettivo a portata di mano.
5. Creare un clima di allarme in vista delle elezioni della Duma. Gli abitanti della Crimea, col loro passaporto russo fresco di stampa nelle mani, voteranno per la prima volta a novembre in elezioni della Federazione. A due anni dall’annessione, con i prezzi dei generi alimentari alle stelle, una crisi economica devastante, l’isolamento dal resto del mondo, il turismo scomparso, il razionamento dell’energia elettrica e chi più ne ha più ne metta, l’euforia da sbornia del dopo referendum sembra passata. E rimane il mal di testa.
Il partito di Putin, Russia unita, è ovviamente il superfavorito, con un 60% di voti previsti. Ma si può fare di più. Un sentimento di insicurezza tra gli elettori della Crimea, come per la minaccia di attentati o azioni di guerra, può far passare in secondo piano tutti gli altri problemi e far stringere i cittadini attorno all’uomo artefice dell’annessione. E al suo partito.
C’è in realtà una sesta opzione. Cioè che tutte le precedenti siano sul tavolo di Putin. In questi due anni di guerra in Ucraina, il presidente russo ha mostrato di agire in base tattiche ragionate sul momento piuttosto che secondo una strategia. Non si spiega diversamente la differenza di trattamento riservata al referendum crimeano e a quello in Donbass, la sorte del progetto Novorossija – prima sbandierato e poi messo in cantina insieme ai leader separatisti della prima ora – o il richiamo all’integrità territoriale dell’Ucraina del dopo Minsk, una contraddizione di tutta la politica precedente.
È ben possibile che lui stesso non abbia ancora deciso fin dove spingersi. Ed è anche noto ai cremlinologi più attenti che Putin sia un giocatore a cui piaccia lasciarsi aperte più opzioni. Potrebbe essere proprio questo il significato del silenzio delle ultime ore.
@daniloeliatweet