Camelia Ghazali è un punto di riferimento per un teatro iraniano sempre più attivo e ricettivo. Con lo spettacolo “I’m a Woman, do you hear me?” riscuote grande successo, a casa e all’estero. «Noi iraniane abbiamo imparato a lottare», dice. «E il teatro può cambiare la società»
Giovane regista, attrice e drammaturga iraniana, Camelia Ghazali ha recentemente riscosso grande successo al Badisches Staats Theater di Karlsruhe, in Germania, con lo spettacolo “I’m a Woman, do you hear me?”. In Europa ha recitato e intende recitare molto, ma è a Teheran che ha sede la sua compagnia, Praxis, termine caro a Karl Marx.
Quello di Camelia Ghazali è un teatro antico, e al tempo stesso fortemente d’attualità: antico, perchè utilizza sapientemente i canoni della rappresentazione classica – nei limiti concessi dall’occhiuta censura islamica – eppure affronta di petto questioni aspre ed irrisolte della contemporaneità. Così, tanto per fare un esempio, in questa storia privata e collettiva, c’è un personaggio femminile che, continuamente e disperatamente, domanda, supplica: «Can I talk? Do you hear me?» ovvero «Posso parlare? Mi sentite?» (e da qui il titolo del lavoro). E in quella reiterata, ossessiva domanda si cela tanto della condizione della donna in Iran: essere troppo e troppo spesso inascoltata o ridotta al silenzio.
È già passato anche in Italia, il Praxis Theatre Group, ma è naturale chiedere a Camelia Ghazali di presentarsi: «Sono nata a Teheran nel 1985. Mi sono laureata come attrice e ho proseguito i miei studi con un master in regia. Ho lavorato come organizzatrice e produttrice teatrale per dieci anni, in Iran e all’estero, e ho recitato in moltissimi Paesi come l’Italia, Olanda, Francia, Germania, Georgia e altri ancora. In Iran ho anche lavorato come assistente a registi importanti nel mondo teatrale iraniano. Sono una donna che vive in Iran. Tutte noi viviamo sotto una pressione molto forte, imposta da problemi e conflitti politici, sociali e tradizionali. Se una donna iraniana vuole essere accettata, deve necessariamente passare tutti i filtri politici, sociali e tradizionali».
La questione femminile, dunque, è al centro della ricerca artistica di Ghazali. E forse per questo, pur nelle dovute metafore della rappresentazione, preme così fortemente nella messainscena che pone al centro della narrazione generazioni diverse di donne: «Ho sempre avuto, forse all’inizio inconsciamente, la questione della donna come tema, nei miei pensieri, nella mia mente. E quando mi trovo ad affrontare un nuovo progetto, penso istintivamente alle donne e ai problemi che stano vivendo. E anche se lavorare esplicitamente su questo tema è stato molto duro, perché non avevo nessuna idea del tipo di impatto che avrebbe avuto nel mondo teatrale o nell’ambiente istituzionale, ho deciso di non rinunciare all’impresa. Noi donne iraniane abbiamo imparato a lottare, e a fare tutto il possibile per rivendicare i nostri diritti. Una delle domande più importanti che ogni iraniana si pone è: “Chi sono?”. Questa domanda è stata la ragione più significativa, per me, nel lavorare al progetto. Scrivere e dirigere lo spettacolo è stato dunque un modo per rispondere a questo interrogativo. Volevo lavorare su un argomento che ognuno poteva riconoscere e ascoltare. So che può suonare un cliché, ma questo cliché si è trasformato mano a mano nell’agonia e nel dolore di non essere ascoltate, di non essere considerate, o semplicemente di venire dimenticate. E così, alla fine, il cliché diventava qualcosa di più grande, che parlava di questioni ancora più “alte” come la solitudine, la paura, la mancanza d’identità, la Guerra…».
Quella iraniana è una società sospesa tra mille sollecitudini e contraddizioni diverse: temi di politica nazionale e internazionale (basti pensare all’annosa questione dell’embargo, ora riaperta dalla posizione americana nei confronti del trattato internazionale firmato sul nucleare) si intrecciano a temi di ordine sociale, culturale, artistico.
Se il cinema iraniano si è da tempo chiaramente imposto sulla scena mondiale, altrettanto stanno facendo letteratura e teatro che rispecchiano e narrano quelle tensioni. I teatri, in particolare, nella capitale e non solo, sono estremamente attivi e ricettivi: festival internazionali (come il prestigioso Fadjir) garantiscono anche una certa apertura a proposte che arrivano dal resto del mondo e che il pubblico iraniano accoglie con grandissima partecipazione e curiosità.
E la scena locale affianca a grandi maestri (basti pensare, per citarne uno solo, al raffinato marionettista Behrouz Gharipbour) anche molti nuovi registi, autori, drammaturghi, coreografi e danzatori di grande interesse. In questi giorni, ad esempio, si sta allestendo in Italia, dopo il successo internazionale, un testo particolarissimo, White Rabbit Red Rabbit, scritto nel 2011, a ridosso delle primavere arabe, dal giovane Nassim Solimanpour: lavoro intrigante, dalla originale struttura (che non si può rivelare, è un meccanismo decisamente a sorpresa!) interpretato da attori come Claudio Gioè, Antonio Catania, Arianna Scommegna, Vinicio Marchioni, Daria Deflorian, Emma Dante, e molti altri.
In questo fermento diffuso, il teatro di Camelia Ghazali e Praxis è dunque un punto di riferimento: «Durante il processo di scrittura di I’m a woman, ho instaurato una collaborazione strettissima con il mio drammaturgo Toomaj Danesh Behzadi. La scrittura è avvenuta contemporaneamente alla mise en espace, nei sei mesi che sono stati necessari alla creazione dello spazio, dell’atmosfera e dello stile dello spettacolo. La reazione che abbiamo avuto è stata davvero buona: il pubblico iraniano lo ha amato. Per me è stato sorprendente constatare che non erano solo le donne ad apprezzare il nostro progetto, ma anche tantissimi uomini! Abbiamo avuto sold out quasi ogni sera e siamo stati l’unica compagnia in città a dover prolungare le tenuta di due settimane. Così, abbiamo aggiunto nuove date e ricevuto inviti anche da altri teatri e abbiamo iniziato a girare. Praxis è stato fondato assieme a Toomaj Danesh Behzadi, già vincitore del premio come miglior attore al Fadjir Theater Festival e i componenti di questo gruppo hanno lavorato assieme per oltre dieci anni. Abbiamo spettacoli e produzioni attive ogni stagione, e teniamo numerosi workshop. La compagnia ha attori e attrici stabili, ma per certi progetti invitiamo e proponiamo collaborazioni esterne. Addirittura stiamo iniziando a pensare che nel futuro ci piacerebbe lavorare con artisti internazionali, sia attori e attrici ma anche tecnici per luci, costumi, oppure macchinisti e fonici».
Però quello che preme, al di là del successo scenico, è un approccio più ampio, profondo, politico al mondo e alla società. È questo, forse, il compito del teatro ovunque nel mondo: porsi come ambiente aperto al confronto e all’incontro. Spazio di democrazia discorsiva, dall’Atene del V secolo alla Tehran di oggi, il teatro non ha esaurito il suo compito: «Sì, il teatro può cambiare la società – conclude Camelia Ghazali – mettendo in discussione le tematiche fondamentali e aprendo la via alla comunicazione, al dialogo. Credo che il teatro sia un tempio della libertà e della liberazione. In teatro le persone, aldilà dell’etnia o del linguaggio, lavorano assieme, diventano un gruppo, e questo può essere un modello migliore per la società. Il teatro è un elemento importante in ogni cultura: invece di conoscerci solamente attraverso i giornali, la TV, la radio o i social network, incontriamoci a teatro! La comunicazione del teatro si basa sul pensiero, sull’emozione, sul sentimento. È un evento assolutamente umano e ci guida verso un mondo migliore, più felice. Un mondo lontano dalla guerra e dal dolore».
@andreaporcheddu
Camelia Ghazali è un punto di riferimento per un teatro iraniano sempre più attivo e ricettivo. Con lo spettacolo “I’m a Woman, do you hear me?” riscuote grande successo, a casa e all’estero. «Noi iraniane abbiamo imparato a lottare», dice. «E il teatro può cambiare la società»