Migliaia di uomini venerdì 14 settembre hanno gridato la loro rabbia e frustrazione. Migliaia di uomini si sono alzati, dopo l’ultima genuflessione prescritta, e hanno iniziato a marciare urlando slogan contro l’America.
Contro l’impero del male, contro il regista del film che ha ridicolizzato e offeso il Profeta. “Morte all’America, morte all’infedele”. Un grido che si è levato da Khartoum, Tunisi, Giacarta, Saana, Siringar, Kabul, Bengasi, Tripoli, ma anche da Sidney e Londra.
Odio. Odio e rabbia. Un’onda che potrebbe travolgere l’America e l’Occidente. Quell’unico grido ha evidenziato un’unità che prescinde dalle nazioni, dai continenti. L’identità di tutti quegli uomini era definita attraverso la religione. Le nazioni arabe si sono rivelate fragili.
La maggior parte degli Stati sono conquiste moderne, che non sono ancora diventate nazioni capaci di generare patriottismo. I confini spesso sono linee tracciate da inglesi e francesi. Linee fittizie che costringono popoli diversi a convivere. Una convivenza che fino al 2011 era stata garantita da dittatori amici dell’Occidente. Saddam era alleato e amico degli Usa contro l’ Iran; Assad, formalmente nemico, è diventato amico degli americani dopo la guerra del 2003, quando appoggiò la guerra anglo-americana contro Saddam, diventato improvvisamente nemico.
Mubarak era il paladino degli Stati Uniti, custode degli accordi di pace con Israele, Ben Ali il tunisino da sempre amico dell’Italia, Gheddafi infine era grande amico di Berlusconi. Il 2011 ha portato rivolte e rivoluzioni. Deposti i dittatori, i nuovi governi hanno i volti barbuti dei musulmani moderati. Ennadah in Tunisia, i fratelli musulmani in Egitto. Per tutti la religione è fonte di ispirazione per leggi, costituzione, ma sopratutto egiziani, tunisini, libici, libanesi siriani, tutti si identificano con l’appartenenza alla sunna. Una grande famiglia, un orgoglio ritrovato. L’occidente e gli Stati Uniti dovranno fare i conti con l’orgoglio musulmano, giovane vigoroso e a volte rabbioso.
La rabbia unisce, pakistani, libanesi, siriani, tunisini, afghani, egiziani, hanno per un pomeriggio sentito la forza della loro rabbia. Marciavano per riscattare secoli di colonizzazione, di abusi, di umiliazioni.La maggior parte degli stati arabi è diventata indipendente dopo la Seconda guerra mondiale. Sono ancora vivi coloro che sono nati sotto la colonizzazione inglese, francese o italiana. “Come tutti i poveri siamo permalosi e orgogliosi” spiega Mouldi, nato a Tunisi quando era ancora francese, una vita passata a lavorare sui set dei film italiani e francesi nel deserto, ora autista di giornalisti in visita durante e dopo la Primavera araba. “Ho due figli, ma sono disoccupati. Per qualche anno sognavano l’Europa, ma per arrivarci si sarebbero dovuti imbarcare da clandestini verso Lampedusa. Conosco troppe famiglie che ora piangono i figli annegati senza lasciare traccia”.
Migliaia di uomini venerdì 14 settembre hanno gridato la loro rabbia e frustrazione. Migliaia di uomini si sono alzati, dopo l’ultima genuflessione prescritta, e hanno iniziato a marciare urlando slogan contro l’America.
Contro l’impero del male, contro il regista del film che ha ridicolizzato e offeso il Profeta. “Morte all’America, morte all’infedele”. Un grido che si è levato da Khartoum, Tunisi, Giacarta, Saana, Siringar, Kabul, Bengasi, Tripoli, ma anche da Sidney e Londra.
Odio. Odio e rabbia. Un’onda che potrebbe travolgere l’America e l’Occidente. Quell’unico grido ha evidenziato un’unità che prescinde dalle nazioni, dai continenti. L’identità di tutti quegli uomini era definita attraverso la religione. Le nazioni arabe si sono rivelate fragili.