Proprio ora che le porte di un potere quasi assoluto in patria gli si stanno per schiudere, il presidente turco Recep Tayyp Erdogan sente franare il terreno sotto i suoi piedi e – quel che è peggio – sotto quelli del Paese. Le recenti modifiche costituzionali che tolgono l’immunità ai parlamentari gli consentono – tramite una magistratura già portata sotto il controllo dell’esecutivo due anni fa – di controllare il potere legislativo.
Potenzialmente, alterando la composizione del Parlamento tramite l’arresto di alcuni deputati curdi incriminati per “terrorismo” grazie a una legge controversa, potrebbe addirittura far modificare al suo partito (Akp) la costituzione in senso iper-presidenziale senza dover affrontare un referendum popolare. Ma il quadro internazionale è dei peggiori per gli interessi turchi e, in particolare nelle ultime settimane, è diventato drammatico.
I ribelli siriani armati e sostenuti da Ankara che occupavano l’area a nord di Aleppo, tra Azaz e Mare (v. cartina 1), avevano il compito di scacciare l’Isis dalla regione, impedendo che tale onere e onore ricadesse sui curdi siriani del Ypg, unitisi ad altri ribelli (arabi, assiri, yazidi etc, pur restando i curdi la maggioranza) nelle Syrian Democratic Forces (Sdf). A fine maggio tuttavia un’improvvisa offensiva dello Stato Islamico li coglie impreparati, li spazza via da quasi tutti i villaggi che avevano conquistato nelle settimane precedenti e riesce anche a isolare Mare da Azaz, ponendo la prima sotto assedio (v. cartina 1). A questo punto sono i curdi stessi – con cui i ribelli filo-turchi si sparavano fino a poco tempo prima – ad aiutare i ribelli perché tengano almeno le posizioni nelle due città (in cambio, pare, di una tregua nella città di Aleppo, dove il quartiere curdo è spesso attaccato dagli altri ribelli). La conseguenza più importante tuttavia non avviene in Siria ma oltreoceano, negli Stati Uniti. A Washington matura la convinzione che la Turchia coi suoi ribelli non riuscirà mai a sradicare lo Stato Islamico da quell’area, tanto strategica in quanto unica via di rifornimento rimasta per l’Isis, e si decide di puntare sulla carta migliore – tenuta in disparte fino a quel momento per riguardo verso le preoccupazioni di un alleato Nato, quello turco, che ritiene i curdi siriani terroristi legati al Pkk curdo-turco -, cioè l’Ypg e in generale le Sdf, che vengono incaricati di attaccare l’Isis da est verso ovest, puntando sulla città di Manbij. E qui Erdogan è costretto a masticare amaro.
Fino a quel momento infatti il presidente turco aveva tracciato una “linea rossa”, che seguiva il corso del fiume Eufrate, che i curdi siriani non avrebbero mai dovuto attraversare pena la violenta reazione militare di Ankara (sporadici superamenti erano subito stati seguiti dal tiro di artiglieria turca sulle postazioni del Ypg). Ora gli Stati Uniti gli impongono di rimangiarsi le sue stesse parole, offrendo solo uno “strapuntino” per coprire l’inversione di 180 gradi: “gli Stati Uniti ci hanno detto che l’Ypg avrà in pratica solo un ruolo logistico a Manbij e che la vera forza combattente sarà composta da arabi”, ha dichiarato Erdogan in seguito a una telefonata con Obama a inizio giugno. A gettare altra benzina sul fuoco arrivano poi negli stessi giorni le foto che ritraggono membri delle forze speciali americane con i gagliardetti del Ypg (v. immagine 1), cosa che scatena una reazione molto dura nell’opinione pubblica turca, specie in quella islamista e anti-americana che costituisce una larga parte del bacino di consenso in cui pesca Erdogan.
«Da oggi in poi, indipendentemente da chi sarà al governo in Turchia, i Turchi metteranno in discussione il loro posto nella Nato e la legittimità della presenza americana nelle basi dell’Alleanza», sostiene Murat Ozer, presidente di un’associazione islamica che aiuta i profughi (Imkander). «Queste foto sono un punto di svolta nel segnalare come la Nato sia diventata inutile. La Turchia ha perso 50 mila uomini nella guerra contro il Pkk, e nessun partito politico potrà ora accettare la cooperazione con gli Stati Uniti dopo tutto questo». Rincara la dose Hilmi Demir, professore universitario turco esperto di movimenti salafiti, secondo cui «queste foto dimostrano come gli Usa abbiano scelto l’Ypg come maggior alleato nella guerra all’Isis. Questa scelta potrebbe spingere giovani turchi nazionalisti, così come gruppi di giovani pii musulmani, a guardare lo Stato Islamico con maggior favore».
Mentre infuria la polemica in Turchia le Sdf avanzano su Manbij. L’area circostante la città cade rapidamente (v. cartina 2) e anche il centro urbano sembra destinato a una rapida resa. Le forze a guida curda si confermano ancora una volta il miglior esercito di terra nella lotta contro lo Stato Islamico, anche grazie al coordinamento coi bombardamenti americani. L’Isis, in difficoltà a causa dell’attacco curdo (e in contemporanea anche di quello lealista più a sud, nell’area di Tabqa)(v. cartina 3), ritira molti suoi uomini anche dal fronte dove si stava scontrando coi ribelli filo-turchi, che passano al contrattacco, rompono l’assedio a Mare e conquistano molti villaggi (v. cartina 2). Pare che – mentre l’Isis si riorganizza a Dabiq – tutte le sigle maggiori di questi ribelli siano confluite sotto l’ombrello della Brigata al-Moutasem, un gruppo sostenuto da turchi e americani (e che ora gira voce risponda più a Washington che ad Ankara), e che si inizi a ragionare in termini di un possibile coordinamento con le Sdf, invece che di un perenne scontro.
A questo punto Erdogan, che dopo aver perso credibilità sulla questione della “linea rossa” rischia di perdere anche il controllo sulle decisioni di almeno parte dei ribelli che finora ha protetto e sfruttato per portare avanti la sua politica di interferenza in Siria, è costretto a ingoiare un altro boccone indigesto: la possibile partecipazione del Pyd (il partito socialista di cui l’Ypg è il braccio armato, che secondo Ankara è legato a doppio filo al Pkk) ai prossimi colloqui di pace a Ginevra. La notizia, data da fonti curde, è ancora da confermare ma a questo punto le condizioni perché gli Usa si schierino a favore dell’inclusione ci sono tutte.
In un momento in cui gli attentati dei curdi si susseguono contro obiettivi militari turchi (polizia o esercito soprattutto), il presidente turco si trova costretto in un angolo dalla sua passata retorica, che equipara il Pkk e i curdi siriani del Pyd, e dalle scelte azzardate di politica internazionale. Non può abbandonare la Nato e gli Stati Uniti ma di fronte all’evidente collaborazione tra Washington e l’Ypg è costretto a mantenere e inasprire una retorica nazionalista e anti-imperialista per non perdere consensi. Se volesse – cosa che secondo diversi analisti gli converrebbe – interrompere le ostilità col Pkk e cambiare strategia in Siria, anche nei confronti del Ypg, rischierebbe di perdere la faccia (e forse le prossime elezioni). E tuttavia tanto più tempo aspetta tanto più gli interessi strategici turchi si deteriorano, con gli Usa sempre meno concilianti (e più filo-curdi) per via della guerra all’Isis, la Ue sempre più lontana a causa delle svolte autocratiche di Erdogan (tanto, pare, da considerare la possibilità di mettere a rischio l’accordo sui profughi siglato con Ankara, pur di non cedere a ricatti giudicati intollerabili per far chiudere a Bruxelles gli occhi sulle violazioni dei diritti democratici e civili), la Russia sempre più minacciosa e con il rischio che un’entità autonoma siriana nasca al confine meridionale della Turchia proprio in un periodo di violento scontro col Pkk. Le Sdf, infatti, presa Manbij sono a poco più di 50 km dal cantone curdo occidentale di Afrin. Una volta raggiunto, il Rojava (il kurdistan siriano) sarebbe unificato.