L’attuale produzione di un microchip finito coinvolge numerose aziende di Paesi diversi, in un processo globale in cui, al momento, primeggiano, interdipendenti, l’Asia e gli Usa. La strategia europea prevede un investimento di 43 mld di euro per arrivare entro il 2030 a una quota di mercato del 20%
Sui chip un’Europa ritardataria cerca di mantenere il passo delle altre grandi potenze internazionali. È un concetto che in realtà si potrebbe applicare in diversi fronti nell’attuale contesto globale, ma che per quanto riguarda il settore dei semiconduttori è particolarmente rappresentativo. I cosiddetti microchip, di cui si sente sempre più parlare, sono delle componenti fondamentali nell’industria elettronica: sono necessari per il funzionamento di quasi qualsiasi oggetto usiamo nel quotidiano, dallo smartphone all’automobile, passando per elettrodomestici e computer. Tanto più sono imprescindibili in campi come la difesa e la sanità. Già di per sé sono quindi un elemento strategico, ma in più c’è anche il fattore economico: le stime parlano di un valore complessivo del mercato in crescita che alla fine del 2022 sarà di circa 600 miliardi di dollari e nel 2030 sarà quasi raddoppiato.
La strategia europea sui semiconduttori
Non a caso Stati Uniti e Cina sono sempre più coinvolti nella cosiddetta “guerra dei microchip”, la competizione per il controllo della filiera di produzione dei semiconduttori, affrontata a colpi di protezionismo, sussidi nazionali e sanzioni. L’Unione Europea vuole provare a dire la sua, o quantomeno a non farsi schiacciare totalmente da est e ovest. Si spiega così lo European Chips Act, il piano della Commissione europea, proposto lo scorso febbraio, che prevede circa 43 miliardi di euro tra soldi pubblici e privati per raggiungere la quota del 20% della produzione mondiale di microchip entro il 2030, oggi ferma intorno al 9%. È una cifra consistente, al netto delle discussioni scatenate in seno all’Ue sull’effettiva capacità per le istituzioni e per gli stati di metterla sul piatto. Ma se messa a confronto con quelle previste da Cina (150 miliardi tra il 2015 e il 2025), Stati Uniti (quasi 53 miliardi federali, con il CHIPS act) e Corea del Sud (450 entro la fine del decennio) non sembra essere abbastanza. Tra l’altro la cifra comprende anche gli investimenti già decisi dei programmi “Horizon Europe” e “Digital Europe”.
All’interno della stessa Commissione Ue, nei mesi precedenti alla stesura del testo, sono inoltre emerse delle divergenze, anche ampie, sull’approccio da tenere. Lo scontro è avvenuto soprattutto sul tema dei sussidi e sull’autosufficienza europea tra i commissari Margrethe Vestager e Thierry Breton. La prima sosteneva la necessità di evitare il più possibile aiuti pubblici che potessero portare a una competizione pericolosa tra stati nazionali per calamitare investimenti stranieri così come il bisogno di fare affidamento sulle aziende statunitensi, senza voler cercare a tutti i costi una ferrea autonomia. Il secondo, invece, premeva per la ricerca di un’indipendenza totale dell’Ue in tema di industrie di semiconduttori.
Gli obiettivi dell’European Chips Act…
Nella composizione dello European Chips Act si è arrivati a un compromesso. L’obiettivo principale pensato dalle parti di Bruxelles è quello di diminuire la dipendenza europea dall’esterno per arrivare a una sorta di sovranità industriale e diventare leader nel settore. Un progetto ambizioso, ma che nasconde alcune criticità proprio nella realizzazione. Oggi la fase di progettazione di un semiconduttore, quella che prevede la ricerca e il design, è in mano principalmente agli Usa, che ne detengono circa il 65% mondiale. Nel passaggio successivo − quello della produzione − a primeggiare per distacco è invece Taiwan, grazie soprattutto alla sua maggior azienda: la Taiwan Semiconductor Manufacturing Company (Tsmc). Attualmente l’Unione Europea rincorre sia nella prima che nella seconda fase ed è costretta a importare i chip dagli Stati Uniti o dall’Asia, Taiwan e Corea del Sud perlopiù, ma anche Cina. Inoltre, le aziende e le fabbriche produttrici europee, tra cui la società italo francese STMicroelectronics, non sono all’avanguardia. Cioè, non comprendono la creazione dei semiconduttori con i transistor di lunghezza minore di 10 nanometri; oggi gli ultimi disponibili sul mercato sono arrivati a quattro nm mentre la ricerca vola verso quelli da tre e due nm. In generale quelli più piccoli di 10 nm servono soprattutto nella produzione di computer, smartphone e device simili, tutti oggetti che non vengono prodotti in Europa ma in altri mercati.
Lo sforzo di Bruxelles mira − almeno in parte − ad attrarre i campioni stranieri, tra cui soprattutto l’azienda americana Intel, dopo i sostanziali rifiuti di Tsmc e Samsung, per costruire delle fabbriche di semiconduttori di ultima generazione sul suolo europeo. Intel, lo scorso marzo, ha annunciato degli investimenti importanti − circa 33 miliardi di euro nell’immediato, 80 da qui al 2030 − per degli impianti di produzione, ricerca e design, e packaging dei chip in Europa, tra Germania, Francia, Italia, Spagna, Irlanda e Polonia.
…e gli interrogativi
Ed è qui che sorgono dubbi. Il proposito di slegarsi dalle catene di approvvigionamento mondiale, visti i rischi venuti a galla durante la pandemia (la carenza di microchip e quindi il rallentamento della produzione globale di beni), va nella giusta direzione. Solo che i chip prodotti oggi in Europa − i meno avanzati − rimangono in maggioranza nei circuiti del continente, soprattutto per la creazione di macchinari industriali e nel settore dell’automotive, che non hanno bisogno di chip all’avanguardia. Con la creazione di fabbriche di ultima generazione si rischierebbe di produrre materiali poi difficili da riutilizzare, vendere o piazzare all’interno dell’Unione. I maggiori dubbi e le critiche riguardano proprio questo: la volontà di provare a costruire nuovi microchip, invece di incrementare le capacità attuali, più adatte alle esigenze dell’industria continentale.
Altri interrogativi sono emersi direttamente dalle aziende europee e sono attinenti all’assunzione del personale. Come ha riportato recentemente il Financial Times (ma l’allarme lo aveva lanciato anche la stessa Commissione), il rischio a cui vanno incontro le società è la mancanza di lavoratori qualificati. L’espansione del mercato in Europa e la prevista creazione di nuove fabbriche e nuovi stabilimenti porterà infatti alla ricerca contemporanea di personale specializzato, ovvero migliaia di ricercatori, ingegneri e tecnici. Cioè categorie che nel continente europeo si fatica a trovare, rendendo necessario il più difficile ricorso a personale straniero. A oggi serve ampliare il percorso di formazione, non solo accademico, che possa sopperire alla carenza europea di queste figure fondamentali per il potenziamento del settore. Tanto che tra le condizioni tenute in conto dalle grandi aziende, prima di scegliere il luogo dove installare il proprio sito, oltre ai collegamenti infrastrutturali, c’è anche la presenza di università e istituti tecnici nelle vicinanze da dove attingere manodopera. La Commissione ha dichiarato che interventi in materia di istruzione e formazione saranno sostenuti, ma intanto la carenza di personale continua.
La questione dei sussidi di stato
Il programma proposto dalla Commissione, a cui il Consiglio ha dato il via libera lo scorso 1° dicembre, ma a cui serve comunque il passaggio nel Parlamento europeo, prevede la “Chips for Europe Initiative” con 11 miliardi da destinare alla ricerca e allo sviluppo, per arrivare alla progettazione di semiconduttori delle ultime generazioni. Sul tema dei sussidi statali ha di fatto prevalso l’apertura. La Commissione di Ursula von der Leyen ha dato il via libera, infatti, agli incentivi per tutti quei progetti e fabbriche cosiddette “first of a kind”, ovvero primi nel loro genere in Europa a livello di tecnologia. Una definizione semplice ma anche piuttosto vaga, che avrà bisogno di ulteriori specifiche, come richiesto nel mandato del Consiglio.
Tra i rischi c’è anche quello della possibilità paventata da Vestager di scatenare una competizione tra nazioni a chi offre di più in incentivi. A essere premiati sarebbero con ogni probabilità i paesi più grandi e più ricchi del continente, come Germania e Francia, che grazie a una maggiore disponibilità di offrire sussidi alle aziende potrebbero attirare i principali investimenti. Tutto a danno dei paesi europei più piccoli che si troverebbero, almeno in parte, a finanziare lo sviluppo di società e poli produttivi di altri attori. La globalizzazione e l’interdipendenza mondiale sulla catena di valore e produzione di un semiconduttore è nota. Per arrivare a utilizzare un prodotto finito è necessario il contributo di aziende e paesi diversi, e al momento, considerato lo svantaggio accumulato negli ultimi 20 anni, l’Europa è in difficoltà. Ma c’è qualche eccezione: l’Ue ha una discreta fetta di mercato (circa il 14%) relativo alla fornitura di materie prime, wafer di silicio e sostanze chimiche, necessarie alla fabbricazione dei semiconduttori. Inoltre, ha circa il 23% della produzione di quei macchinari essenziali alla creazione di microchips, in primis grazie alla società olandese Asml Holding.
Il caso olandese: l’Asml Holding
L’azienda, con 60 siti sparsi tra il continente europeo, gli Usa e l’Asia, ha una sua peculiarità che la rende strategica nell’industria globale dei semiconduttori. Asml, infatti, produce macchinari e sistemi litografici fondamentali; ha poi sviluppato una tecnica − la litografia ultravioletta estrema (Euv) − che la rende praticamente egemone in tutto il mondo. Le società soprattutto di Taiwan, Corea del Sud e Cina si rivolgono proprio all’azienda olandese per ottenere gli apparecchi necessari alla produzione dei loro semiconduttori. Ecco perché Asml è finita nell’occhio del ciclone e nel pieno della guerra dei chip tra Washington e Pechino. Gli Stati Uniti, infatti, hanno premuto per mesi affinché la produttrice di macchinari vietasse la vendita dei suoi prodotti alla Cina. L’obiettivo della Casa Bianca è di minare la capacità cinese di realizzare microchip e contenere i suoi piani di espansione nella filiera dei semiconduttori, in una competizione tecnologica tra le due grandi potenze che si fa sempre più accesa. L’attore chiave europeo, dopo aver provato a resistere alle pressioni statunitensi, si è allineato alla postura che viene da oltreoceano. D’altronde − come dimostra la scelta dell’americana Intel di espandersi in Europa − al momento al Vecchio Continente conviene ancora affidarsi al suo alleato maggiore riguardo la produzione di semiconduttori. Anche perché nel breve periodo, pur riuscendo a sciogliere tutti i non pochi nodi attorno allo European Chips Act, non sarà in grado di raggiungere la piena indipendenza nel settore.
La sovranità tecnologica ricercata da Bruxelles parte proprio da quei campioni nazionali − come Asml − grazie a cui oggi può avere voce in capitolo nella competizione. Se è vero che l’Europa deve farsi trovare pronta a produrre chip viste le instabilità internazionali che potrebbero portare all’interruzione delle catene di approvvigionamento dei microchip, è altrettanto vero che incentivarne la produzione senza prima armonizzare l’industria del continente potrebbe avere effetti deleteri. Soprattutto se al momento si può appoggiare ancora su determinati alleati come gli Stati Uniti (nonostante l’Inflation Reduction Act) e sulla forza di alcuni campioni europei strategici da alimentare.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di gennaio/marzo di eastwest
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