Extinct in the Wild alla Fondazione Prada
“Oggi la Terra è modellata da una specie, per una specie. Il corso dei fiumi, le precipitazioni piovose e la composizione dell'atmosfera sono stati ri-plasmati dalla mano umana.” Con questa frase si apre la descrizione che Michael Wang fa della propria mostra “Extinct in the Wild”: una collezione di habitat artificiali che espongono varie specie di flora e fauna non più esistenti oltre i limiti della natura antropizzata.
Gli esemplari in mostra infatti sopravvivono sul pianeta grazie alla cura dell'uomo: alcuni sono specie diffuse, perché comuni nella coltivazione (come il Ginkgo biloba), altre sono estremamente rare come la Brugmansia suaveolens scomparsa dall'ecosistema sudamericano migliaia di anni fa (probabilmente a causa dell'estinzione delle specie che ne distribuivano i semi, tra cui il bradipo terricolo gigante) ma sopravvissuta in piccole coltivazioni tradizionali grazie alle proprietà allucinogene che ne favorivano l'uso nei rituali sacri.
Estinta allo stato selvatico è anche l'Ambystoma mexicanum, anche detta Axoloto o pesce camminatore: una salamandra acquatica scoperta nei canali realizzati dagli antichi Aztechi di Città del Messico, oggi in gran parte drenati. La peculiarità della specie, considerata dagli Atzechi l'incarnazione terrena del dio Xoloti, è il fatto che raggiunge la maturità senza attraversare la metamorfosi, restando in uno stato acquatico e larvale e mantenendo la capacità di rigenerare i propri tessuti in età adulta. Per questo migliaia di esemplari, la maggior parte dei quali albini, sono oggi allevati in laboratorio a scopo di ricerca.
Il fascino e l'interesse di questa piccola mostra, è quello di sollevare attraverso 19 esemplari e testimoni viventi un tema enorme: quello del nostro rapporto con la natura, con la casa che abitiamo e di cui ci nutriamo. Una casa su cui esercitiamo una impronta crescente e devastante, una pressione che ha innescato la prima estinzione di massa non dovuta a cause geologiche (o all'arrivo di asteroidi) ma semplicemente all'insieme delle azioni umane: la crescita della popolazione, dei sistemi urbani e delle infrastrutture, dell'agricoltura intensiva e delle sostanze chimiche immesse nell'ambiente, la crescita dei consumi e complessivamente delle emissioni e dei cambiamenti climatici. Tutto questo ha già rimodellato la Terra rendendola più a misura d'uomo ma meno ospitale per l'insieme della vita. Per esempio, ci ricorda Wang, la prima specie estinta stando alle registrazioni dei naturalisti che documentarono l'ultima apparizione di un bovino selvatico nelle foreste di Varsavia nel 1627, è oggi la specie animale più diffusa sulla Terra, il bovino domestico, con circa un miliardo e mezzo di capi destinati alla produzione di latte e alla macellazione.
E' per questo che nel nostro universo culturale l'estinzione non va più vista semplicemente come una categoria documentaria, come una etichetta per esemplari impagliati della nostra storia zoologica. L'estinzione è oggi una categoria per comprendere il presente che stiamo vivendo: per comprendere l'essere vivente che ci sta di fronte e (dopo migliaia di anni in cui gli abbiamo sottratto terreno, habitat, cibo, strumenti e mezzi di sopravvivenza) sopravvive solo grazie alle nostre “cure”. Che poi questa cure siano finalizzate al nostro nutrimento, alla nostra curiosità di collezionisti o alle ricerche scientifiche per la nostra immortalità, è in un certo senso un fatto secondario (non come importanza, ma per temporalità). In primo luogo, la mostra ci pone di fronte una natura estinta al di fuori di una architettura della sopravvivenza costruita per mantenere le specie alle esatte caratteristiche di temperatura e umidità di cui hanno bisogno e in cui la pratica del curatore (d'arte) si trasforma in quella di colui che si prende cura di una vita non più auto-sufficiente.
Con questa mostra, nata dal “Curate Award”, un concorso internazionale promosso insieme dalla Fondazione Prada e Qatar Museums nel 2013 per aprire nuove prospettive nella concezione di eventi espositivi, a due anni dall'inaugurazione della sede di Largo Isarco, la Fondazione Prada riafferma la sua concezione dell'arte come strumento per capire e pensare i cambiamenti. In questo senso, il campus composito e disarticolato realizzato da Rem Koolhaas, mantenendo e ristrutturando alcuni dei capannoni della ex distilleria e inserendovi nuove strutture, si conferma uno spazio capace di incoraggiare varietà e differenze, costringendo i visitatori a costruirsi un percorso sempre diverso tra le gallerie e i cortili di un paesaggio dell'arte che è ancora capace di stupire, aprendo punti di vista inediti sul mondo dentro e fuori di noi.