Nelle ultime settimane la preparazione di un intervento militare in Libia ha subito una netta accelerazione. Sulla stampa internazionale stanno trapelando voci di un imminente avvio di bombardamenti mirati per contenere l’espansione dello Stato Islamico nel Paese. Il generale Usa Joseph Dunford ha parlato apertamente di questa eventualità, collocandola temporalmente “nelle prossime settimane”. Secondo gli esperti far girare questa possibilità è sia una mossa per mettere pressione agli attori politici libici perché raggiungano l’accordo fino ad oggi mancato su un governo unitario, sia un modo per preparare l’opinione pubblica e i mass media occidentali al probabile intervento armato. Pare poi confermato che siano già operativi sul terreno libico diversi nuclei di forze speciali: americani, inglesi, francesi e italiani. Starebbero raccogliendo informazioni di intelligence in vista dei futuri bombardamenti (chi colpire, dove, con chi trattare etc.), e non solo. A Sirte stanno misteriosamente morendo diversi leader dell’Isis colpiti da cecchini non identificati.
Finora era stato considerato requisito necessario, per una possibile azione militare straniera in Libia, l’accordo tra fazioni libiche per un governo di unità nazionale. Due elementi pare abbiano però cambiato la situazione. In primo luogo il processo politico di creazione del governo unitario va a rilento. Il parlamento di Tobruk – unico riconosciuto internazionalmente – non ha approvato la lista di ministri che il premier Mohamad Fayaz al Sarraj, incaricato di formare un governo dopo la firma dell’accordo in Marocco, ha presentato in prima istanza. Formalmente perché i ministri (trentadue) erano troppi, in realtà pare che abbia pesato l’opposizione del generale Haftar, capo militare delle forze di Tobruk e grande escluso dalla lista. In secondo luogo l’espansione dello Stato Islamico, che oltre a minacciare da vicino gli impianti petroliferi si teme possa saldarsi con i movimenti jihadisti del Sahel e con Boko Haram, ha accresciuto l’urgenza di un intervento. Ora è quindi possibile che l’Occidente avvii i bombardamenti contro l’Isis anche senza una formale richiesta da parte di un legittimo governo libico.
«La nascita di un governo unitario è una possibilità che ancora non si può escludere ma, considerato l’andamento delle trattative fino ad oggi, non sono ottimista», spiega Arturo Varvelli, ricercatore dell’Ispi ed esperto di Libia. «I nodi che hanno impedito il successo del negoziato finora sono tutt’ora irrisolti, in particolare il ruolo che avrà il generale Haftar nel futuro della Libia e la perdurante ostilità all’accordo delle potenti milizie della Tripolitania che fanno riferimento al presidente islamista del Parlamento di Tripoli, Nuri Abu Sahimin. Se non verrà trovata un’intesa – al di là di quelle che sono le indiscrezioni di stampa – l’opzione militare di cui si discute sarà molto problematica. Da un lato è resa urgente dalla presenza dello Stato Islamico, dalla paura della sua espansione e fusione con altri gruppi, e dal rischio che destabilizzi Egitto e Tunisia. Dall’altro, intervenendo senza un accordo con gli attori libici, si correrebbe il rischio di spingere tra le braccia dell’Isis altre sigle jihadiste e di screditare definitivamente qualsiasi governo unitario (a quel punto palesemente irrilevante o peggio “fantoccio” dell’Occidente). La mancanza di chiarezza poi sugli obiettivi dell’eventuale missione – contenimento dell’Isis, State building, protezione della capitale etc. – è poi un altro ostacolo. Iniziare una guerra», conclude Varvelli, «senza avere perfettamente chiaro verso quale fine si tenda è un grave errore, si pensi al caso dell’Iraq nel 2003. E se anche in Libia l’obiettivo fosse estirpare lo Stato Islamico non è coi bombardamenti mirati che si può ottenere il risultato. Serve una pacificazione nazionale che faccia cessare lo stato di anarchia in cui prospera l’Isis».
«Se continuerà lo stallo decisionale e nel breve periodo non sarà formato un governo unitario, credo che le possibilità di un intervento armato aumentino», sostiene Mattia Toaldo, analista dell’European Council on Foreign Affairs. «Si tratterebbe a quel punto di un intervento minimo, bombardamenti aerei mirati su obiettivi precisi. Inutile, secondo me, dal momento che senza forze di terra è impossibile risolvere alla radice il problema. Questo tipo di azione sarebbe poi quasi interamente decisa a Washington, e più al Pentagono che non alla Casa Bianca. All’Italia spetterebbe un ruolo ancillare. Diverso sarebbe se invece un governo unitario nascesse e richiedesse l’aiuto dell’Occidente. A quel punto si potrebbe discutere di se e come mettere in sicurezza la capitale, pianificare un intervento che coinvolga anche truppe di terra, addestratori, forze speciali, e l’Italia potrebbe aspirare a un ruolo di guida e coordinamento vista la sua conoscenza dello scenario. Ma in questo momento mi sembra che una simile prospettiva si sia ulteriormente allontanata».
L’Italia si sta comunque preparando all’eventualità che un accordo venga raggiunto – l’Unione europea ha fatto trapelare l’ipotesi di emettere sanzioni contro gli attori libici che stanno sabotando il negoziato, affiancando alla pressione bellica anche quella diplomatica – e le venga assegnato un ruolo preminente nella eventuale coalizione. «In caso di un intervento militare basato su bombardamenti e forze speciali – lo scenario che al momento è ritenuto più probabile, anche se l’accordo venisse raggiunto – gli Stati Uniti sarebbero ovviamente quelli che si occuperebbero del controllo aereo, essendo gli unici che hanno a disposizione i mezzi necessari per farlo», spiega Claudio Neri, direttore dell’Istituto italiano di studi strategici. «Italia, Francia e Uk avrebbero probabilmente forze speciali a terra (per l’Italia si parla degli uomini del Comsubin e del Col Moschin). In questo contesto Roma potrebbe ottenere un ruolo guida per diversi motivi. In primo luogo è geograficamente vicina, ha degli asset logistici che mancano agli altri Stati. Poi è lo Stato che meglio conosce i gruppi e la situazione sul terreno, può fornire un aiuto in termini di intelligence politica e strategica (quella tattica sarebbe lasciata agli Usa). La Francia potrebbe ambire a un ruolo analogo ma è già impegnata su molti scenari (secondo alcune fonti il rifiuto di Renzi di sostituire truppe francesi in scenari di guerra all’indomani degli attentati di Parigi nasceva da questo calcolo di interessi sulla Libia ndr.), e – conclude Neri – dall’intervento contro Gheddafi del 2011 non ha brillato per competenza nella gestione di questo scenario». Al momento questa resta comunque l’opzione minoritaria ma l’alternativa di un intervento ridotto e senza “invito” da parte dei libici, se ha il pregio di sottrarre l’Occidente al ricatto dell’immobilismo delle fazioni, avrebbe sicuramente il difetto di comportare gravi rischi con poche chance di ottenere successi duraturi.