Quella in Yemen è una guerra quasi ignorata dall’Occidente. E non senza un motivo. Dopo la rivolta della minoranza sciita del Paese (Houthi) che ha causato la caduta del precedente governo – nato all’indomani della Primavera araba che nel 2012 aveva posto fine alla trentennale presidenza di Ali Abdullah Saleh e guidato dal sunnita Abed Rabbo Mansour Hadi – e l’occupazione della capitale Sanaa da parte dei ribelli, lo scorso marzo è intervenuta l’Arabia Saudita (poi sostenuta da Egitto, Emirati e altri Stati arabi sunniti).
Riad infatti temeva di perdere (a vantaggio del nemico sciita iraniano) la propria influenza su uno Stato strategico sia militarmente sia per il controllo del traffico marittimo, e che la rivolta sciita potesse sconfinare nel proprio territorio (dove pure abita una minoranza sciita, insofferente verso la casa regnante sunnita). I bombardamenti sono da subito stati molto violenti, spesso indiscriminati, e hanno contribuito a causare – secondo quanto riferito dall’Onu – una delle peggiori crisi umanitarie del pianeta. Gli Houthi, sostenuti dall’Iran e dall’ex presidente Saleh, stanno tuttavia opponendo una strenua resistenza, e questo accresce il costo (economico e in termini di vite umane) della guerra. L’Occidente – alleato dei Sauditi e che sullo Yemen ha lasciato carta bianca a Riad, per evitare di irritare il proprio partner già furibondo per l’accordo sul nucleare siglato dai suoi alleati con l’Iran – ha tutto l’interesse a parlarne il meno possibile. Ma se evitare di parlarne significa evitare di preoccuparsi di quanto sta succedendo, il rischio è che si stia commettendo un tragico errore. Nel caos yemenita sta infatti trovando terreno fertile per tornare all’antico splendore Al Qaeda, da sempre qui presente con la sua branca più pericolosa, l’Aqap (Al Qaeda in the Arabian Peninsula).
Prima della guerra civile, il caso yemenita veniva portato dagli Usa come esempio di un efficace contrasto al jihadismo, mediante la collaborazione tra i droni americani e le truppe di terra di Sanaa. Oggi, con le truppe di terra yemenite impegnate nella guerra civile, non è più così. «Innanzitutto non si può operare con soli droni contro il terrorismo», spiega Germana Tappero Merlo, analista di intelligence ed esperta di terrorismo. «Se anche colpisci un membro importante, non solo viene subito sostituito ma nell’azione sono più i danni collaterali (uccisioni di civili innocenti) che vantaggi a lungo termine. Poi l’Aqap è avvantaggiato anche dall’essere situato geograficamente ai margini dell’area di conflitto vero e proprio tra Houthi e coalizione a guida saudita». Il territorio controllato dall’Aqap si estende in fatti nella zona centrale del Paese, dal confine con l’Arabia Saudita fino al porto di Al Mukalla. Qui i ribelli sciiti non arrivano – tendono a muoversi soprattutto nelle aree dove sono etnicamente radicati – e le bombe saudite, per una convenienza tattica di breve periodo, non cadono.
«Non è un caso che la guerra si stia combattendo esclusivamente nell’area occidentale del Paese» spiega ancora Tappero Merlo. «Lo Yemen – che è un paese non certo ricco di greggio – è vittima di questo conflitto, combattuto sotto le mentite spoglie di una guerra civile interconfessionale musulmana, esclusivamente per la sua posizione geografica strategica: chi controlla lo stretto di Bab el-Mandeb controlla le vie marittime passanti dall’Oceano Indiano al Mar Rosso e fino a Suez, e da lì al Mediterraneo. È facile immaginarne la valenza dal punto di vista economico ma soprattutto militare: lo scontro fra Iran e Arabia Saudita è per il dominio regionale, avere un trampolino di lancio del genere verso un’Africa con Paesi come Somalia, Sudan e Libia nel caos, o un Egitto non ancora del tutto stabile, è di importanza capitale».
In questa, ennesima, proxy war tra Teheran e Riad il campo saudita ha dato l’ennesima dimostrazione di non farsi troppi scrupoli nell’armare e sfruttare a proprio vantaggio formazioni estremiste sunnite, pur di contrastare gli sciiti (sospettati sempre di essere longa manus dell’Iran). «Dal ’94 in Yemen è al potere al-Islah – una formazione politica islamista n.d.r. – sostenuta da sottogruppi come i Fratelli Musulmani e dotata di una omonima milizia armata», dice ancora Tappero Merlo. «Era stato proprio per contrastare l’avanzata di queste e di altre forze salafite (e vicine alla Fratellanza), all’indomani della Primavera araba, che gli Houthi avevano deciso di scatenare la rivolta contro il potere centrale. A quel punto è intervenuto anche l’Iran, che ha inviato consiglieri militari (primi fra tutti Hezbollah), che hanno dato vita a un gruppo-milizia chiamato Ansarollah. Ciò ha permesso e sta permettendo agli Houthi di evolvere da clan più perseguitato della Penisola Arabica a potente forza popolare in grado di togliere terreno ai salafiti di al-Islah, e tutto quanto ad esso collegato, anche frange estreme come l’Aqap. La reazione di quest’ultima non si è fatta attendere, anche con attentati kamikaze in moschee sciite, e Riad non sembra interessata ad arginarla».
Se la pericolosità del lasciare indisturbato – e anzi, rafforzato – l’Aqap riguardasse solamente l’ennesima proxy war tra Iran e Arabia Saudita sarebbe comprensibile la disattenzione occidentale. Ma Al Qaeda ha da sempre avuto come propria strategia – per ottenere visibilità, finanziamenti e anche per ragioni ideologiche – il portare attentati anche sul suolo occidentale. A differenza dell’Isis, poi, Al Qaeda non si basa tanto sull’operato di “lupi solitari” quanto sull’azione di cellule addestrate, che preparano un’azione magari per anni prima di compierla. Lasciare all’Aqap una zona franca in cui poter addestrare e armare eventuali terroristi (come avvenuto, pare, per la strage di Charlie Hebdo) comporta gravi rischi nel medio periodo. Soprattutto ora, che pare anche l’Isis si sia infiltrato in Yemen (ha già rivendicato alcuni attentati contro gli sciiti). «Quel che trovo più allarmante – conclude Tappero Merlo – è una possibile evoluzione delle relazioni fra al-Qaeda e Isis (di recente il leader di Al Qaeda, al Zawahiri, ha lanciato un messaggio che pare preludere a un’alleanza tra i due gruppi n.d.r.) che li porti a unirsi. Questa unione potrebbe avere effetto in Yemen e, da lì, muoversi per il resto della regione e magari minacciare l’Occidente».