Con l’imminente offensiva di Idlib, ultima roccaforte ribelle, inizia una nuova fase del conflitto, che porterà Ankara e Damasco a una resa dei conti. A est invece il regime può trovare un accordo con i curdi. In attesa che anche europei e cinesi salgano a bordo per disegnare la Siria post-bellica
Potrebbe essere un addio, o forse solo un arrivederci. Con la sostanziale fine delle zone di de-escalation – riconquistate una dopo l’altra dal regime, a parte quella di Idlib – sembra tramontare la fase propulsiva di quella piattaforma trilaterale composta da Russia, Iran e Turchia che nell’ultimo anno e mezzo aveva, pur con mille difetti e imprevisti, dato una qualche forma di gestione a un conflitto caotico e sanguinoso come quello siriano. Con l’imminente, e potenzialmente devastante, offensiva di Idlib e i nuovi tentativi dei protagonisti di Astana di coinvolgere nuovi attori – dagli Usa di Trump all’Europa e la Cina – sembra infatti aprirsi una nuova fase che potrebbe generare, forse, anche i primi piani concreti per la Siria post-bellica.
Tre dinamiche principali, solo parzialmente interconnesse fra loro, caratterizzeranno gli sviluppi dei prossimi mesi del conflitto.
L’offensiva di Idlib
Potrebbe iniziare a giorni e sarà caratterizzata dalla ricerca da parte russa di un accordo in grado di soddisfare gli interessi profondamente divergenti del regime di Assad e della Turchia di Erdogan. Gli obiettivi di Assad sono piuttosto semplici: una grande offensiva finale volta a riconquistare l’ultima sacca ribelle rimasta. E poi chissà, forse sarà finalmente il turno delle zone sotto occupazione turca, che la leadership di Damasco non ha mai smesso di definire come totalmente illegittima.
Ankara oggi controlla, infatti, la regione di Afrin, occupata all’inizio del 2018, e il triangolo compreso tra Azaz, Jarablous e Al-Bab, occupata durante l’operazione Scudo dell’Eufrate all’inizio del 2017. In queste aree Ankara amministra e controlla militarmente il territorio tramite l’Esercito Libero Siriano, organizzazione cappello un tempo indipendente e che oggi raduna al suo interno tutti i gruppi ribelli siriani sostenuti da Ankara. La Turchia ha inoltre un controllo, pur parziale e indiretto, su Idlib che da circa un anno cerca, con scarso successo, di sottrarre all’influenza dominante di Tahrir al-Sham, cartello di gruppi jihadisti che comprende anche quell’organizzazione legata ad Al-Qaeda fino a un paio di anni fa conosciuta come Jabhat al-Nusra.
Ankara sembra intenzionata a evitare un’offensiva totale su Idlib e da settimane sta facendo pressione perché parte del territorio sia risparmiato dalle operazioni militari, cercando di distinguere le aree occupate da Tahrir al-Sham da quelle occupate da altri gruppi. Non è un segreto che l’idea sia unire buona parte della provincia alla zona di influenza diretta turca, collegandola ad Afrin e all’area occupata durante Scudo dell’Eufrate.
Ma non ci sono solo le ambizioni turche a spingere per un’operazione più contenuta. L’offensiva su Idlib ha infatti il potenziale per trasformarsi in una tragedia umanitaria anche peggiore di Ghouta o dell’assedio ad Aleppo Est alla fine del 2016. I quasi due milioni di abitanti, molti dei quali profughi giunti nell’area dai precedenti fronti del conflitto, questa volta non avrebbero infatti una “nuova Idlib” in cui essere rilocati in caso di resa. Ciò significherebbe, per la maggior parte di loro, una scelta fra due opzioni: una nuova fuga, stavolta presumibilmente verso i territori controllati dalla Turchia o verso lo stesso territorio turco, oppure una resistenza disperata ed estremamente sanguinosa.
Ankara punta quindi prima di tutto a evitare nuove ondate di profughi dirette verso i propri confini o verso i territori siriani sotto il suo controllo, nei quali conta anzi di ricollocare almeno parte dei quasi tre milioni di civili siriani oggi rifugiati in Turchia. L’eventualità invece non sembra preoccupare la leadership di Damasco che, dopo Idlib, punta a ottenere il prima possibile anche il ritiro turco dai restanti territori occupati da Ankara nell’ultimo anno e mezzo.
Un grattacapo la cui risoluzione spetterà prima di tutto agli uomini del Cremlino. A Mosca dovranno infatti decidere fino a che punto appoggiare le rivendicazioni del proprio alleato Assad, cercando di evitare una nuova catastrofe umanitaria, e fino a che punto lasciare che i piani siriani di Erdogan si realizzino, facendo ingoiare al dittatore di Damasco il boccone amaro di una presenza turca a tempo indeterminato ma con la prospettiva di avvicinare ancora di più a sé un Paese chiave come la Turchia in un momento in cui i rapporti con Washington sono ai minimi storici.
Possibili accordi fra regime e Ypg curdo sul fronte est
Ma il puzzle siriano non finisce a Idlib. La seconda dinamica che caratterizzerà i prossimi mesi avrà, infatti, come teatro l’est del Paese dove si potrebbe realizzare un progressivo riavvicinamento del Ypg curdo al regime di Assad. Un processo che potrebbe portare ad una accelerazione del disimpegno americano, che Trump sembra voler portare a termine prima delle elezioni di mid-term.
L’accordo tra Damasco e Ypg è particolarmente sostenuto da Russia e Stati Uniti che vorrebbero la concessione di un’autonomia almeno parziale per i territori curdi del nord. La prospettiva di una decentralizzazione, anche limitata, è però vista con ostilità dal regime siriano, che ha finora fatto resistenza a qualunque ipotesi in questo senso.
La posizione di Damasco potrebbe però ammorbidirsi in virtù di tre fattori cruciali: primo, un accordo con il Ypg permetterebbe il ritorno in tempi brevi del governatorato di Raqqa e dei principali giacimenti petroliferi dell’est nelle mani del regime. Secondo, un accordo col Ypg eliminerebbe uno degli ultimi ostacoli rimanenti per un totale disimpegno americano dalla Siria, obiettivo di grande valore per Assad. Terzo, un Ypg autonomo ma controllabile e amico potrebbe emergere in futuro come una utile carta da utilizzare contro la Turchia, la quale controlla ancora ampi territori in Siria e che è assurta a principale sponsor dell’opposizione. Un accordo definitivo tra Damasco e i militanti curdi è infatti visto con apprensione da Ankara e non sono da escludere nuove avventure militari turche nel nord siriano.
Nuove alleanze per la gestione della fase post-conflitto
Infine, sia il vertice di Helsinki tra Stati Uniti e Russia, sia la conferenza promossa dalla Turchia nel settembre 2018 con la partecipazione di Russia, Francia e Germania costituiscono le prime prove generali per la ricerca di una nuova piattaforma multilaterale per la gestione del conflitto siriano e, soprattutto, della fase post-conflitto.
Con la fine della fase caratterizzata dalla gestione delle zone di de-escalation se ne apre una nuova con nuovi obiettivi: il rientro degli oltre 6 milioni di profughi siriani all’estero e la ricostruzione del Paese.
La piattaforma di Astana sembra aver esaurito quindi la sua forza propulsiva e i suoi tre protagonisti, Russia, Iran e Turchia, hanno oggi bisogno dell’intervento di altre potenze dotate di fondi e strumenti per il raggiungimento dei nuovi obiettivi.
In cambio di voce in capitolo nella gestione dei ritorni dei profughi, i Paesi europei potrebbero infatti garantire ingenti finanziamenti per la ricostruzione. Questo potrebbe avvenire su base comunitaria, tramite una politica comune dell’Unione Europea o, più probabilmente, con il coinvolgimento differenziato dei principali Paesi membri.
Analogamente, la Cina sta valutando di entrare negli equilibri siriani con come grande protagonista della ricostruzione, in cambio dell’inclusione della Siria nel suo ambizioso piano di espansione economico-infrastrutturale dall’Asia al Mediterraneo conosciuto come “One Belt, One Road”. Infine, anche i Paesi del Golfo, a cominciare dal Qatar, potrebbero sorprendere tutti sostenendo la ricostruzione di una Siria dominata da Assad qualora alcune richieste fossero soddisfatte, a cominciare da una significativa riduzione dell’influenza iraniana nel Paese.
Una fase che finisce e un’altra, ancora non bene definita, che si apre per un conflitto durato ormai oltre sette anni. Si potrebbe pensare che questa nuova fase ne avvicinerà finalmente la risoluzione. Ma, come purtroppo questi sette anni ci hanno insegnato, in Siria l’ottimismo è un lusso che è sempre più difficile permettersi.
@Ibn_Trovarelli
Con l’imminente offensiva di Idlib, ultima roccaforte ribelle, inizia una nuova fase del conflitto, che porterà Ankara e Damasco a una resa dei conti. A est invece il regime può trovare un accordo con i curdi. In attesa che anche europei e cinesi salgano a bordo per disegnare la Siria post-bellica
Potrebbe essere un addio, o forse solo un arrivederci. Con la sostanziale fine delle zone di de-escalation – riconquistate una dopo l’altra dal regime, a parte quella di Idlib – sembra tramontare la fase propulsiva di quella piattaforma trilaterale composta da Russia, Iran e Turchia che nell’ultimo anno e mezzo aveva, pur con mille difetti e imprevisti, dato una qualche forma di gestione a un conflitto caotico e sanguinoso come quello siriano. Con l’imminente, e potenzialmente devastante, offensiva di Idlib e i nuovi tentativi dei protagonisti di Astana di coinvolgere nuovi attori – dagli Usa di Trump all’Europa e la Cina – sembra infatti aprirsi una nuova fase che potrebbe generare, forse, anche i primi piani concreti per la Siria post-bellica.