Non ci sono speranze di pace per la Siria. Nel conflitto tra il regime di Bashar al Assad e i ribelli si scarica la tensione intrareligiosa tra sunniti (la maggioranza della popolzione) e sciiti (gli Assad sono alawiti, una corrente dell’islam vicina allo sciismo) che attraversa tutto il Medio Oriente. Ma non solo. Nel Paese martoriato da quattro anni di guerra si scontrano anche gli interessi iraniani, sauditi, turchi, qatarioti, americani, russi, libanesi, qaedisti, iracheni e giordani, per limitarsi agli attori principali. A dispetto della “conferenza di pace” da poco iniziata a Ginevra, senza un accordo tra questi soggetti – almeno tra i più rilevanti – è impossibile ad oggi che la soluzione venga trovata all’interno della Siria: ci sono troppe fazioni in lotta (tutte troppo deboli perché una prevalga militarmente sulle altre), e quasi tutte rispondono a “padrini” stranieri che ne indirizzano – quando non determinano – le mosse.
Così, ad esempio, dietro le recenti vittorie dei ribelli e le sconfitte del regime (tanto gravi da non poter essere negate nemmeno da Assad) si intuiscono i movimenti degli attori regionali e i loro cambi di strategia. Costretti sulle difensive dall’espansionismo iraniano – e ancor più dalla sua legittimazione, con l’accordo sul nucleare che pare in dirittura d’arrivo – l’Arabia Saudita da un lato e Qatar e Turchia dall’altro hanno sepolto le precedenti divergenze (Qatar e Turchia sostengono fortemente la Fratellanza Musulmana, mentre la casa reale dei Saud la considera un nemico giurato) per propiziare la nascita lo scorso 24 marzo di una coalizione di gruppi ribelli islamisti, Jaish al-Fatah (l’Esercito della Conquista). Questa nuova coalizione a pochi giorni dalla sua nascita ha strappato Idlib, importante città dell’entroterra siriano, alle truppe governative e nelle settimane successive ha espanso l’area sotto il proprio controllo, arrivando a Jisr al-Shughour, cittadina che presidia la strada per Latakia (importante città di porto della parte alawita del Paese).
Di contro il regime attraversa un momento di difficoltà: il suo esercito è dissanguato, pare gli uomini a disposizione siano stati dimezzati dagli anni di conflitto e c’è difficoltà a rimpolpare le fila dei reggimenti visto che è rischioso attingere leve dalla maggioranza sunnita del Paese. Inoltre sembra che serpeggi del malcontento nell’apparato militare siriano per l’eccessiva libertà di manovra che viene lasciata ad Hezbollah, la milizia sciita libanese che – su ordine dell’Iran – è intervenuta nel conflitto siriano per puntellare Assad. Hezbollah, è questa l’accusa che gira tra i papaveri del regime di Damasco, si preoccuperebbe di presidiare giusto la zona di confine col Libano, trascurando di aiutare gli alleati nel resto del Paese. E anche questa mossa sarebbe figlia di una strategia “straniera”, quella cioè dell’Iran. Teheran ha infatti interesse a garantire la sopravvivenza del regime e la sicurezza delle zone abitate da sciiti e alawiti. È su queste aree e sulla capitale che concentra la propria attenzione ma non vuole (o, anche considerato il parallelo impegno in Iraq, non può) svenarsi per combattere i ribelli in tutto il Paese.
L’attuale situazione è in ogni caso temporanea: le divergenze tra l’agenda per la regione dei Sauditi da un lato e quella di Turchia e Qatar dall’altro sono destinate a riemergere, inoltre la presenza della sigla qaedista di Jabhat al Nusra all’interno della coalizione ribelle è un fattore di forte preoccupazione per l’Occidente. Oggi impedisce che vengano inviate armi ai ribelli (per timore che finiscano nelle mani sbagliate), un domani potrebbe portare addirittura ad accordi sotto banco col regime. Sulla paura del jihadismo Assad ha già giocato d’astuzia con l’Isis nel recente passato, è probabile che lo rifaccia – ora che il Califfato sta defluendo principalmente verso l’Iraq – anche con altre sigle. Secondo quanto riportato dallo Spiegel – venuto in possesso di documenti segreti sulla nascita dello Stato Islamico – il regime di Damasco avrebbe giocato opportunisticamente di sponda con l’Isis per anni, attaccandolo a parole ma non con le armi, e anzi concentrando il suo sforzo bellico contro la parte laica e moderata della ribellione. Il motivo è semplice: avere per nemico qualcuno peggiore di sé agli occhi dell’Occidente. Il piano ha funzionato tanto bene in passato che è probabile venga riproposto anche in futuro.
La questione dello Stato Islamico è comunque un’altra variabile esterna che complica la situazione in Siria. Nato dalla mente di Samir Abd Muhammad al-Khlifawi (militare, laico, ex ufficiale dei servizi segreti di Saddam Hussein) l’Isis avrebbe – sempre secondo quanto riportano i documenti diffusi dallo Spiegel – approfittato del caos in Siria per un certo tempo, ma da sempre ha come obiettivo la presa del potere in Iraq, quantomeno nelle zone a maggioranza sunnita. Il fanatismo religioso (come fin dai tempi delle crociate) e la lotta all’oppressore siriano sono stati solo lo specchietto per le allodole per avere più carne da cannone da gettare nel conflitto. “All’Isis non interessa abbattere Assad. Il suo obiettivo primario è Baghdad, non Damasco”, spiega il direttore dell’Istituto Italiano di studi strategici, Claudio Neri. Intanto però la Siria è invasa da migliaia di foreign fighters, attratti dal richiamo della jihad.
E la presenza del Califfato nel Paese ha una serie di altre conseguenze, che – oltre che i rapporti con le potenze mondiali, Stati Uniti in primis – interessano anche gli Stati limitrofi. Secondo recenti rivelazioni, la Giordania – che con Turchia, Qatar e Sauditi coordinati dagli Usa dovrebbe contribuire all’addestramento di ribelli siriani “moderati” – avrebbe deciso di concentrare i propri sforzi (e di spendere il proprio capitale di relazioni con le tribù siriane) nel formare combattenti votati più che alla cacciata di Assad al contenimento dell’estremismo jihadista. Così facendo da un lato si allontana dagli Stati del Golfo e dalla Turchia, che avrebbero voluto avere come priorità l’abbattimento del regime siriano, dall’altro asseconda i desiderata degli Stati Uniti, sempre più freddi circa la possibilità di dare aiuto (militare e di intelligence) agli insorti, viste le pesanti infiltrazioni del fanatismo islamico. L’impegno congiunto di Ankara, Riad e Doha a favore del “Esercito di Conquista” nascerebbe quindi anche come reazione alle esitazioni americane.
“La verità inconfessabile è che a tutti conviene che in Siria prosegua la guerra civile a bassa intensità a cui abbiamo assistito negli ultimi anni: lì si scaricano tensioni e conflitti che altrimenti rischierebbeo di tracimare altrove”, dice ancora Claudio Neri. “Gli Stati Uniti non possono permettere che vincano i fanatici sunniti, Isis o Al Nusra che sia, né possono scontentare troppo gli alleati della regione, già spaventati per le aperture all’Iran. Israele per ora sta alla finestra ma, se da un lato la sua sicurezza è minacciata sulla carta anche dal fanatismo islamico sunnita, dall’altro non può nemmeno lasciare che Hezbollah guadagni troppo potere politico e militare. L’Iran poi non è disposto – e nemmeno la Russia – ad abbandonare Assad, e specularmente Sauditi, Turchia e Qatar non possono desistere dal tentativo di rovesciarlo. Insomma, a nessuno degli attori principali coinvolti conviene la pace. Purtroppo – conclude – temo che per la Siria si prospetti un futuro di anni, forse decenni, di guerra costante”.