«La Turchia sta preparando un’invasione di terra della Siria». L’accusa arriva direttamente dal portavoce del Ministro della Difesa russo Igor Konashenkov, secondo cui i movimenti di uomini e mezzi turchi al confine siriano sono segnali inequivocabili. Immediata la risposta di Ankara, che smentisce Mosca e anzi rilancia, sostenendo si tratti di una mossa propagandistica del Cremlino per distogliere l’attenzione dalle stragi di civili siriani causate dai bombardamenti russi. Cauti gli Stati Uniti, che tramite il portavoce del Dipartimento di Stato, John Kirby, hanno rifiutato di confermare o smentire le accuse russe o le repliche turche.
Secondo diversi analisti le insinuazioni di Mosca hanno di per sé un valore tattico: parlando apertamente di un’eventualità che si vuole evitare si cerca di “bruciarla”, costringendo il nemico (in questo caso la Turchia) a prendere una posizione ufficiale. Ma l’ipotesi di un intervento diretto nel conflitto siriano da parte di Ankara è qualcosa di più che una speculazione del Cremlino, non fosse altro che negli ultimi anni di guerra civile siriana sono stati proprio i turchi a parlare apertamente di questa ipotesi. La creazione di una “zona cuscinetto” in territorio siriano – sorvegliata dai ribelli, dalla Turchia e, nelle speranze di Erdogan, anche dagli Usa – per accogliere i profughi, tenerli (insieme ai ribelli) al riparo dai bombardamenti lealisti e russi, e (questo è l’ovvio non detto) impedire l’unificazione dei territori curdi siriani, è una richiesta che è stata avanzata spesso e con insistenza da parte di Ankara. Non avendo finora trovato sponda a Washington il progetto è rimasto fermo, ma la possibilità che la Turchia si muova autonomamente non è esclusa. Non solo.
Accanto a quelli che sono i piani – più o meno noti – di Ankara, c’è la situazione sul confine, attualmente molto calda. Già lo scorso 19 gennaio era scattato un allarme, poi rientrato, sull’avvio di operazioni di sconfinamento da parte della Turchia. Da settimane si susseguono scaramucce di confine tra l’artiglieria turca e i miliziani dell’Isis al valico di Jarablus. L’irrequietezza turca si spiega con la piega – “brutta” per gli interessi di Ankara – che stanno prendendo gli eventi bellici in Siria. In primo luogo i curdi siriani – supportati dagli Usa, dalla Russia e pare ora anche dalla Francia – hanno attraversato l’Eufrate e avanzano verso ovest (v. cartina n.1). Il grande fiume era la “linea rossa”, tracciata da Erdogan, passata la quale sarebbe scattato l’intervento militare diretto da parte dell’esercito turco contro l’Ypg. Finora non è successo – hanno pesato la contrarietà dell’alleato americano e il rischio di esporsi a pesanti attacchi militari curdi, russi e lealisti – ma di sicuro ad Ankara non hanno dimenticato. La paura è che i curdi siriani, che ora pare stiano ammassando uomini e mezzi alle porte della cittadina di Manbij in vista di una grande offensiva di primavera, riescano a conquistare l’ultimo tratto di confine – attualmente in mano quasi interamente all’Isis, tranne per un ridotto corridoio controllato dai ribelli –, mettendo così in collegamento i cantoni orientali con quello occidentale, e ottenendo l’unificazione della Rojava (il Kurdistan siriano).
In secondo luogo le forze del regime di Assad – aiutate da truppe iraniane, Hezbollah e aviazione russa – stanno macinando vittorie contro i ribelli sostenuti dalla Turchia nella zona di Aleppo. Di recente i lealisti hanno rotto l’assedio alle cittadine di Zahraa e Nubl, troncando in due il corridoio ribelle che andava dal confine turco alla città di Aleppo e compromettendo così le linee di rifornimento del nemico (v. cartine 2 e 3). Ora la battaglia per il controllo della città vede, secondo gli esperti, le forze lealiste in posizione di netto vantaggio. Inoltre l’avanzata lealista anche nel territorio controllato dall’Isis, verso al Bab, speculare a quella curda verso Manbij (v. cartina n.1), rischia di sigillare un altro tratto di confine, lasciando alla Turchia l’accesso a zone controllate dai ribelli – non isolate in “sacche” – praticamente solo nella provincia di Idlib.
L’opzione militare per Ankara si va complicando col passare del tempo, diventa sempre meno fattibile e sempre più rischiosa. Anche per questo alcuni analisti temono che possa azzardare una sortita fintanto che è ancora in condizione di farlo. Ma qui si arriva alle ragioni per cui alla Turchia non conviene rischiare avventure in Siria. Gli alleati della Nato – americani ed europei – non hanno apprezzato le ambiguità di Erdogan nei confronti dei gruppi jihadisti siriani nel corso degli ultimi anni, e sulla questione dei curdi le visioni sembrano inconciliabili. Gli americani usano l’Ypg come fanteria contro lo Stato Islamico, considerando i curdi siriani come preziosi alleati, mentre per i turchi sono terroristi legati al Pkk (e ne hanno pretesa l’esclusione dai colloqui di pace a Ginevra, del resto subito falliti). Se la Turchia intervenisse direttamente in Siria rischierebbe di esporre i suoi uomini ad attacchi di gruppi che sono stati finora armati, finanziati e supportati dall’Occidente. Inoltre non potrebbe godere della protezione automatica della Nato, che copre solo il caso di attacchi contro la Turchia e non contro suoi uomini impegnati all’estero. Infine una presenza militare turca in Siria sarebbe esposta agli attacchi anche di Mosca, che ha dispiegato ora un imponente dispositivo militare, col rischio di esasperare una situazione già molto tesa.
L’ipotesi valutata come la più realistica dagli esperti è che per ora la Turchia non intenda rischiare un’invasione della Siria. Cercherà piuttosto di trovare delle sponde diplomatiche – e non solo – per contenere i successi curdi, russi e di Assad. L’Arabia Saudita ha da poco dato la sua disponibilità a un intervento di terra in Siria contro l’Isis, se la coalizione a guida americana lo chiedesse. Secondo fonti militari russe si tratterebbe di un bluff, in quanto le forze armate saudite sono già duramente impegnate in Yemen e difficilmente Riad potrebbe sostenere una guerra aperta su più fronti. Tuttavia un impegno diretto delle potenze sunnite, almeno contro lo Stato Islamico, è forse l’unica soluzione teoricamente possibile che non veda del tutto sacrificati i loro interessi. Al momento infatti un’eventuale sconfitta del Califfato porterebbe vantaggi quasi solo all’asse sciita guidato dall’Iran, in prima fila contro gli uomini in nero di al Baghdadi, e ai movimenti curdi. Ad Ankara tocca quindi scegliere tra una difficile – forse impossibile – alleanza militare con i Sauditi (con cui ci sono duri contrasti ad esempio sul ruolo della Fratellanza musulmana, considerata da Riad un’organizzazione terroristica e da Erdogan un prezioso interlocutore) e un immobilismo forzato che avrebbe il sapore di un’accettazione della sconfitta.