La crisi della pandemia avrà effetti non solo sull’economia internazionale ma anche sui punti di riferimento ideologici, culturali e politici
José Luis Rodríguez Zapatero è stato Presidente del Governo spagnolo dal 2004 al 2011, dopo aver vinto le elezioni come leader del Psoe nel 2004 e nel 2008. Tra le sue politiche più simboliche figurano la ritirata delle truppe dall’Iraq, la legge sul matrimonio omosessuale e il processo di dialogo con l’Eta. Dalla sua idea di “Spagna plurale” nasce il nuovo Estatut catalano nel 2006, poi manomesso dalla sentenza del Tribunal Constitucional. Per affrontare la crisi del 2008 Zapatero ricorre a una politica di tagli della spesa sociale, che lo costringe ad anticipare le elezioni da cui il Psoe esce sconfitto. A 60 anni, fuori dalla prima linea della politica, dice di sentirsi molto in pace con se stesso, perché “il potere è temporaneo, il potere in democrazia si esercita in maniera contenuta e non c’è nulla di peggio che credere di avere una missione trascendentale”, convinto che “in democrazia è meglio non avere né eroi né martiri”. E oltretutto “quando sei e Presidente hai la possibilità di dire quello che pensi pubblicamente e questo è un privilegio”. Vive con speranza il Governo di coalizione delle sinistre e invita i giovani politici a “Leggere, leggere e leggere”. Perché “la cultura è quella che permette di arrivare al potere con una visione umile della vita come destino condiviso”. Parliamo con lui dei diritti di cittadinanza, della fine del terrorismo, della crisi di allora e di quella di oggi, del conflitto catalano e dei nuovi equilibri mondiali, specie nel continente americano, con l’avvento di Biden alla presidenza degli Stati Uniti.
Presidente, la Spagna con lei diventa pioniera nell’affermazione dei diritti di cittadinanza, come ci riuscì?
La Spagna democratica aveva sete di libertà e di diritti dopo una dittatura che ci fece vivere nel ritardo storico fuori dall’Europa e dalla modernità. Il mio progetto politico è di un socialismo dei cittadini, l’eguaglianza come aspirazione passa per l’esercizio pieno delle libertà individuali, la non discriminazione e l’abolizione delle ingiustizie storiche. Rappresentai un progetto molto repubblicano che era di estensione dei diritti di cittadinanza come la più trasformatrice delle leve.
Perché nel Paese che per primo legifera sul matrimonio omosessuale un rapper finisce in carcere per le sue canzoni?
La giustizia è indipendente e i giudici hanno applicato una sentenza che ovviamente è discutibile. Ma chissà che non si debba modificare la legislazione perché non s’intenda che c’è una limitazione e una criminalizzazione della libertà di espressione. Il Governo ha annunciato una riforma legislativa e speriamo che possa risolvere questo caso che ha generato un enorme dibattito e protesta in Spagna.
Il suo Governo fu il primo in Europa a essere paritario tra uomini e donne. In Italia c’è polemica sul nuovo Governo per la presenza femminile.
Fummo il primo Governo paritario in Europa col 50% di donne e 50% di uomini. Mi sembra una condizione essenziale nella democrazia del secolo ventuno che i Governi abbiano tanti uomini quante donne. Dovrebbe essere una regola scritta e non scritta, la Ue dovrebbe averla come condizione. E devo dire, con tutto il rispetto per il Governo italiano e il Primo Ministro Draghi, che prima o poi dovrà cambiare questa situazione. Perché non può esserci un esercizio intelligente delle politiche pubbliche se non ci sono donne e uomini ugualmente rappresentati.
L’organizzazione terrorista Eta si è dissolta nel 2018: quanto ha influito sulla sua fine il processo di pace con la banda terrorista?
L’Eta abbandona la violenza nel 2011. Il nostro processo di dialogo comincia nel 2005, con l’attentato al terminal T4 di Barajas nel 2006 non finisce, s’interrompe, ma poi riprende discretamente fino al 2011. La fine dell’Eta è il prodotto del dialogo. È il grande acceleratore che consegue che la banda terrorista metta fine alla violenza. E perciò per me, come esperienza politica e personale, il dialogo diventa imprescindibile nella soluzione di qualunque conflitto: il dialogo è lo scopo, il dialogo è il metodo.
Anche lei ebbe il suo “Whatever it takes”: nel 2010 annunciando i tagli disse “Me cueste lo que me cueste”. Come pensa oggi a quella stagione?
La crisi finanziaria nel 2008 fu affrontata dall’Europa con una ricetta sbagliata. Magari ci fosse stato Draghi, perché se allora si fosse fatto quello che ha fatto la Bce negli ultimi anni e in questa crisi, non avrei dovuto fare i tagli che feci. Li feci per obbligo: c’erano una serie di paesi come la Spagna, l’Italia e il Portogallo con un deficit alto e dovevamo dare un messaggio perché l’Europa mettesse le risorse per aiutare la Grecia. La crisi comincia a vincersi nei paesi del Sud Europa quando Draghi pronuncia quella famosa frase. Per fortuna si è appresa la lezione e adesso, col Next Generation e quanto sta facendo la Bce, l’Europa è all’altezza delle circostanze e ci siamo ritrovati con il progetto europeo.
Perché lei riuscì a governare in minoranza trovando via via le maggioranze, mentre in Italia questo sembra impossibile?
L’Italia è un Paese che trovo molto affascinante, non capisco però la sua vocazione per l’instabilità politica. In Spagna, nell’epoca in cui c’era il bipartitismo, quando io dovevo cercare la maggioranza in Parlamento, partivo da un numero di deputati molto alto. Ma io credo che ci sia più cultura di stabilità in Spagna che in Italia. Governare in minoranza esige dedicare molto tempo e un grande sforzo sincero al dialogo. E poi, la Spagna è un Paese maggioritariamente di centro-sinistra. I partiti nazionalisti sono piuttosto di centro-sinistra. La parte più conservatrice della società spagnola e alcuni settori fuori della Spagna non capiscono la singolarità del nazionalismo spagnolo. È vero che la maggioranza dei partiti nazionalisti nel mondo sono partiti di destra, ma in Spagna non è così e questo ha una spiegazione: il nazionalismo si oppose a Franco. È una singolarità della realtà spagnola che fa sì che il centro-sinistra con i nazionalisti superi sempre il 50% dell’elettorato spagnolo.
Cosa pensa delle recenti elezioni catalane?
Il risultato è interessante. Si mantiene l’equilibrio tra nazionalisti e non nazionalisti, perciò dev’esserci un accordo, perché nessuno riesce a imporsi in modo chiaro elettoralmente. Ma la cosa più interessante è che nei due blocchi indipendentista e non indipendentista chi ha occupato la prima posizione sono quelli che vogliono favorire il dialogo, i socialisti catalani e Esquerra Republicana e questo augura una nuova fase. E il tavolo di dialogo deve riempire di contenuti quel re-incontro che i catalani hanno votato.
È possibile la soluzione del conflitto catalano con i leader indipendentisti in carcere o in esilio?
È certamente un fattore che rende più difficile il dialogo, ma non dev’essere paralizzante, il dialogo deve prodursi. Speriamo che nel processo che si apre ci sia la possibilità di una soluzione alla questione dei leader indipendentisti in carcere. Tutti i temi che hanno dato luogo a sentenze o a situazioni giuridiche che comportano la non presenza in libertà o in Catalogna dei leader indipendentisti devono essere affrontati e risolti nel rispetto dello Stato di diritto, ma con una visione di generosità democratica che io difendo e non ho dubbi che il Governo spagnolo ce l’abbia in agenda. Come difendo che debbano esserci impegni da parte dei nazionalisti, che hanno tutto il diritto alle loro idee, al rispetto delle regole e delle leggi.
C’è spazio per l’ipotesi di un referendum?
Nella Costituzione non c’è spazio per un referendum. Ma anche prescindendo da questo, le esperienze di referendum binari per creare un quadro di convivenza territoriale portano alla radicalizzazione, perché non è un tema che si possa risolvere con un sì o con un no, soprattutto quando la società catalana è divisa più o meno a metà. L’esperienza ci dice che in questo genere di referendum chi perde per poco – e sempre perderà per poco – vuole una rivincita, come in Scozia o in Quebec e non c’è mai stabilità. Perciò l’alternativa è un accordo tra nazionalisti e costituzionalisti che incorpori innovazioni e riforme, da sottoporre eventualmente a referendum.
Che ne pensa della fuga dell’ex re Juan Carlos all’estero?
Mi ha molto sorpreso e deluso e penso che agli spagnoli sia dovuta una spiegazione, disponibili ad ascoltarla con il rispetto che si deve a chi ha fatto molto per la democrazia spagnola. Credo anche che sia il momento di aprire una nuova regolamentazione della Corona che risolva le lacune esistenti. La monarchia parlamentare è uno dei principi del consenso costituzionale, non c’è la possibilità di riformarne il Titolo senza il centro-destra. L’opzione di una monarchia parlamentare è perciò solida e allora dobbiamo fare in modo che sia il più possibile al servizio dell’interesse generale.
Che cos’è il golpismo dell’estrema destra nel secolo XXI?
Lo abbiamo visto nel suo momento più intenso al Campidoglio negli Stati Uniti. La politica negli Stati Uniti, specie nell’epoca di Trump, è stata il culmine della teoria della Alt-Right che inizia nel Tea Party, con le sue derivazioni nel movimento Qanon ed è molto preoccupante che questo accada nella prima democrazia del mondo. L’assalto al Campidoglio è Trump, è l’apice della sua politica. In Sudamerica l’amministrazione Trump aveva già fatto dei test in questo senso, con la rottura delle regole del diritto internazionale, il metodo di cooptazione delle élite istituzionali e politiche e il ritorno alla dottrina per cui i paesi sudamericani hanno i problemi che hanno per la loro inferiorità civica, legittimando perciò qualunque intervento. Una riedizione delle dottrine più reazionarie, con in aggiunta il fatto di prodursi in un momento storico in cui gli Stati Uniti soffrono una certa decadenza della loro leadership, che si manifesta in quanto successo al Campidoglio, negli errori in Medio Oriente e nei fallimenti in Sudamerica.
Che sta succedendo in Sudamerica?
La politica protezionista di Trump, sostenuta dal ragionamento che bisognasse finirla col Muro di Berlino in Sudamerica rappresentato da Nicaragua, Venezuela e Cuba, ha finito col produrre esattamente il contrario: c’è stata una reazione a favore della sinistra. La sinistra ha vinto in Argentina, in Messico, in Bolivia, vincerà in Ecuador, vediamo che succederà in Cile, cosa accadrà in Colombia dove sembra possa determinarsi un cambio di Governo. Tutti i Governi e i partiti che hanno seguito Trump sono stati sconfitti in modo strepitoso. Ed è necessario che la sinistra in Sudamerica converga, che abbia un programma comune e ambizioso.
Cambierà la situazione con Biden?
Vedremo se l’amministrazione Biden affermerà i valori democratici nelle relazioni internazionali, rispettando la legalità internazionale, l’Onu, la soluzione pacifica dei conflitti. Poiché ho seguito le politiche di Trump in Sudamerica molto da vicino, non mi ha sorpreso quanto successo al Campidoglio: il movente ideologico è lo stesso e così i metodi. La sinistra sudamericana deve provocare il dibattito con l’amministrazione Biden. Un dibattito ideologico e politico in cui si dimostri agli Stati Uniti perché perdono il ruolo di guida.
Il Sudamerica anticipa quello che succede nel resto del mondo?
La crisi della pandemia avrà effetti non solo sull’economia internazionale ma anche sui referenti ideologici, culturali e politici. È tutto ancora aperto e all’inizio, non sappiamo se sorgeranno nuove ideologie o se qualcuna soccomberà. Non sappiamo se questo acutizzerà la decadenza degli Stati Uniti o favorirà la potenza crescente della Cina. Perciò mi sembra molto necessario che la sinistra, almeno in Sudamerica e magari anche in Europa, abbia la capacità di generare un programma comune, una visione con un minimo di proposte di base condivise. In Sudamerica esiste un germe sempre più importante che è il Grupo de Puebla (forum politico nato a Puebla nel 2019, ndr) che, in modo efficace in due anni, sta agglutinando tutta la sinistra sudamericana. L’ideologia che anticipi una visione solida e condivisa da molti partiti nell’uscita da questa crisi avrà l’iniziativa e sarà vincente.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di marzo/aprile di eastwest.
José Luis Rodríguez Zapatero è stato Presidente del Governo spagnolo dal 2004 al 2011, dopo aver vinto le elezioni come leader del Psoe nel 2004 e nel 2008. Tra le sue politiche più simboliche figurano la ritirata delle truppe dall’Iraq, la legge sul matrimonio omosessuale e il processo di dialogo con l’Eta. Dalla sua idea di “Spagna plurale” nasce il nuovo Estatut catalano nel 2006, poi manomesso dalla sentenza del Tribunal Constitucional. Per affrontare la crisi del 2008 Zapatero ricorre a una politica di tagli della spesa sociale, che lo costringe ad anticipare le elezioni da cui il Psoe esce sconfitto. A 60 anni, fuori dalla prima linea della politica, dice di sentirsi molto in pace con se stesso, perché “il potere è temporaneo, il potere in democrazia si esercita in maniera contenuta e non c’è nulla di peggio che credere di avere una missione trascendentale”, convinto che “in democrazia è meglio non avere né eroi né martiri”. E oltretutto “quando sei e Presidente hai la possibilità di dire quello che pensi pubblicamente e questo è un privilegio”. Vive con speranza il Governo di coalizione delle sinistre e invita i giovani politici a “Leggere, leggere e leggere”. Perché “la cultura è quella che permette di arrivare al potere con una visione umile della vita come destino condiviso”. Parliamo con lui dei diritti di cittadinanza, della fine del terrorismo, della crisi di allora e di quella di oggi, del conflitto catalano e dei nuovi equilibri mondiali, specie nel continente americano, con l’avvento di Biden alla presidenza degli Stati Uniti.
Presidente, la Spagna con lei diventa pioniera nell’affermazione dei diritti di cittadinanza, come ci riuscì?
Questo contenuto è riservato agli abbonati
Abbonati per un anno a tutti i contenuti
del sito e all'edizione cartacea + digitale della rivista di
geopolitica