Da Total a Siemens, è lunga la lista delle imprese europee che lasciano l’Iran per evitare rappresaglie Usa. I gruppi italiani per ora resistono. E per le Pmi si aprono nuove opportunità. Ma l’Italia, primo partner commerciale, brilla per la sua assenza nel dibattito sulle sanzioni
Varie imprese europee hanno annunciato l’addio all’Iran da quando, il 6 agosto, è entrata in vigore la prima tranche di sanzioni Usa contro Teheran, in attesa della seconda il 5 novembre: le sanzioni più temute, quelle sull’export del petrolio e le transazioni finanziare con la Banca Centrale iraniana. Dalla Total che ha rinunciato ad un maxicontratto per il giacimento di gas South Pars a Psa (marchi Peugeot, Citroën e DS) , da Siemens a Deutsche Telecom, da Air France a British Airways, si è allungata la lista dei grandi gruppi che non scommettono più sull’Iran.
Ma per ora da parte dell’Italia – dove l’accordo sul nucleare del 2105 aveva dato luogo a trattative e memorandum di intesa per grandi contratti da circa 30 miliardi di euro – sembra prevalere l’attesa, mentre restano aperte diverse prospettive per le piccole e medie imprese che non hanno interessi negli Usa, e possono così evitare le sanzioni.
Per quanto riguarda Alitalia – una delle tre compagnie europee rimaste, insieme a Lufthansa e Austrian Airlines – la scelta è di restare, nonostante la grande fuga delle altre (ultima la greca Aegean): fuga avvenuta però non per effetto diretto delle sanzioni Usa, ma per le ridotte prospettive di traffico nel nuovo clima dell’offensiva trumpiana. Confermati dunque i voli giornalieri Roma-Teheran con Airbus 320 nell’orario invernale, anche se – spiegano fonti interne alla compagnia – non sarà facile. Buona parte dei passeggeri sono infatti iraniani, e il crollo del valore del rial ha raddoppiato in sole due settimane il costo del biglietto – e degli alberghi. Un’altra incognita è come reagirà il sistema bancario dopo il 5 novembre: se dovesse venire meno anche il sostegno delle poche banche italiane che operano con l’Iran, diventerà impossibile trasferire in Italia gli incassi dei biglietti convertiti in euro.
Si naviga a vista anche per i grandi gruppi. Parliamo di Ansaldo, Danieli (che pur in Iran opera come Danieli China), Fata, Maire Tecnimont, nei cui uffici la scelta comunque è ancora quella di attendere. Così del resto si è fatto in questi tre anni per capire come si sarebbero comportate le grandi banche (timorose di ritorsioni Usa già prima delle nuove sanzioni), e come ottenere garanzie sugli investimenti (questione infine risolta dal governo Gentiloni con l’accordo quadro tra Invitalia e due grandi banche iraniane).
A parte qualche eccezione come Pininfarina, che ha annunciato la sospensione di un contratto da 70 milioni, ed Eni, che ha chiarito di avere chiuso tutto il pregresso e non avere più obiettivi di investimento in un Paese che pure, dai tempi di Enrico Mattei, ha tanto segnato la storia del gruppo. «Secondo me tutti aspettano novembre perché nessuno ha il coraggio di dire per primo che se ne va», è la battuta di un manager italiano che opera da decenni in Iran. Bisogna dire che «l’Italia è completamente assente dal dibattito europeo sul tema sanzioni, a differenza di Francia, Regno Unito e Germania – è un altro commento raccolto in ambienti diplomatici – pur essendo storicamente il primo partner commerciale dell’Iran e secondo esportatore dopo la Germania».
Questo non vuol dire però che non continuino ad esservi prospettive per l’Italia e le sue Pmi, considerato che, riferiva nei giorni scorsi il quotidiano iraniano Financial Tribune, l’Italia resta al primo posto per interscambio in Europa (con 2,55 miliardi di euro nei primi sette mesi del 2018), davanti a Francia, Spagna, Germania e Grecia. E nonostante un declino degli scambi con l’Europa dei 28 di quasi l’8% rispetto allo stesso periodo del 2017.
«Stiamo attraversando una fase estremamente dinamica ed emotiva, cui è necessario contrapporre un certo livello di pragmatismo», dice Luca Miraglia, amministratore delegato di Quarkup Group, società di consulenza commerciale per le aziende estere interessate a entrare nel mercato iraniano o potenziarvi la propria presenza (circa 600 i clienti da 16 Paesi). «Gli attuali indicatori sono negativi – riconosce Miraglia, che è anche rappresentante ufficiale del Gruppo Ambrosetti in Iran – tuttavia molto succederà da oggi al wind-down di novembre e poi nel trimestre successivo. Sarà un banco di prova importante per l’Iran, gli Usa, i Paesi del Golfo e i grandi possibili influencers di questo scacchiere , cioè Russia e Cina».
Ma se «le grandi imprese sono tipicamente esposte sul mercato americano, con livelli di fatturato che eccedono di molto il business con l’Iran», prosegue, e «i grandi players hanno sospeso il perseguimento di nuovi progetti e stanno cercando di ottenere dei permessi speciali (waiver) da Washington per quelli in essere», per le Pmi si aprono altre opportunità. L’Iran infatti «ha individuato proprio nell’attrazione delle Pmi straniere – insieme all’intensificazione delle relazioni con i Paesi non allineati – un obiettivo primario da perseguire».
Per le Pmi questo «apre delle nicchie di interessanti opportunità. Ovviamente da filtrare attraverso le lenti del ridotto potere d’acquisto del rial e dei possibili blocchi merceologici locali». Il riferimento è alla prassi del governo iraniano di bloccare l’import di alcuni beni, per non danneggiare l’industria locale, ma al tempo stesso sostenere le importazioni di altri prodotti con dollari cambiati al tasso ufficiale calmierato. Per queste Pmi «vendere resta un’opzione», dice Miraglia, nei settori di maggior interesse come beni strumentali, prodotti per l’agricoltura, materie prime e prodotti farmaceutici. «Il governo sta cercando con molta fatica di sostenere l’acquisto dei prodotti di prima necessità e di calmierare il tasso di cambio per una seconda fascia (come i prodotti per l’industria). Ma produrre in loco è sempre la scelta migliore, a maggior ragione in un momento come questo. Avvantaggiarsi dei bassi costi industriali locali rappresenta un vantaggio competitivo prezioso e permette di operare anche in vigenza di limitazioni al settore merceologico. Va da sé che il rischio Paese non consente investimenti finanziari e suggerisce l’individuazione di partner locali».
Se i canali finanziari si chiudono, si potrà ancora contare sulle triangolazioni, cioè sullo spostamento delle transazioni in altri Paesi, come in particolare Dubai? «Di fatto le triangolazioni hanno continuato ad essere popolari tra i businessman iraniani – risponde -. Sono state le banche europee che hanno progressivamente ridotto la volontà di operare in questo modo», ma ora «molto dipenderà dal livello di pressione che eserciterà l’America, soprattutto verso istituti di dimensioni medie e piccole». Miraglia si dice scettico sulla possibilità che l’Unione europea – cui il governo iraniano ha dato l’ennesimo ultimatum, il 5 novembre, per passare dalle parole a fatti concreti ed efficaci – riesca a venire in soccorso delle proprie imprese.
Ma negli uffici dell’Ice di Teheran si continua intanto a lavorare, e si prepara la partecipazione italiana a due fiere internazionali di settembre, Iran Plast e IFarm, per i macchinari per la plastica e le macchine agricole. E una quarantina di imprenditori e manager iraniani sono appena venuti all’autodromo di Imola e poi alla Fiera Farete di Bologna. Insomma, la partita Iran per l’Italia è tutt’altro che chiusa.
@lb7080
Da Total a Siemens, è lunga la lista delle imprese europee che lasciano l’Iran per evitare rappresaglie Usa. I gruppi italiani per ora resistono. E per le Pmi si aprono nuove opportunità. Ma l’Italia, primo partner commerciale, brilla per la sua assenza nel dibattito sulle sanzioni