Per contrastare l’ascesa dello Stato Islamico, nell’agosto 2014 la dottrina del presidente Obama prevedeva: “Prima l’Iraq”. “Prima” rispetto alla Siria, l’altro Stato in cui il Califfato controlla parte del territorio. Questa decisione nasceva da varie considerazioni. A Baghdad, in primo luogo, il governo (prima di Al Maliki, poi di Al Abadi) è alleato degli Stati Uniti – a differenza del regime siriano di Bashar al Assad – e ha chiesto direttamente il supporto americano.
L’esercito statunitense poi conosce molto meglio il territorio iracheno, presidiato per otto anni dopo l’invasione del 2003. Infine, e soprattutto, lo scenario iracheno è meno complicato di quello siriano (un caos iper-frammentario dilaniato dagli interessi delle potenze regionali), politicamente prima ancora che militarmente. In Siria infatti lo Stato Islamico si scontra con la dittatura di Assad, contro cui combattono – indirettamente, armando diversi gruppi ribelli – anche gli alleati regionali di Washington, Turchia e Sauditi in testa.
A settembre 2014 l’America, vista la rapida evoluzione dello scenario siriano, si è vista costretta tuttavia ad una correzione di rotta, allargando sempre più l’area dei propri bombardamenti al di là del confine iracheno. Presto si è arrivati a una situazione de facto di “Prima la Siria”, e la Casa Bianca si è trovata nella difficile posizione di dover colpire un proprio nemico – l’Isis – senza però poterne avvantaggiare troppo il principale avversario – la dittatura di Assad – per non irritare i propri alleati. Washington inoltre non ha voluto aiutare in modo determinante l’unica forza terza rispetto a Stato Islamico e dittatura di Assad, cioè gli altri ribelli siriani, in quanto pesantemente infiltrati da formazioni jihadiste, tra cui anche la stessa Al Qaeda.
Mentre l’attenzione internazionale era concentrata sulla Siria – sia per il dramma umanitario dei profughi, arrivato nelle case degli Europei, sia per i timori suscitati dal recente intervento militare della Russia – in Iraq la campagna di attacchi mirati da parte dell’aviazione americana è comunque proseguita. Senza produrre al momento (come del resto anche in Siria) grandi risultati sul terreno. Le fila dei combattenti del Califfato sono state sfoltite e la dirigenza decimata, ma nuove reclute hanno riempito i vuoti lasciati e le grandi città irachene – soprattutto Ramadi, capitale della provincia sunnita di Anbar, e Mosul, più a nord – sono ancora sotto il controllo dello Stato Islamico. La situazione però potrebbe essere ora vicina a un punto di svolta.
Dopo un trimestre di preparativi – gli annunci di un imminente attacco risalgono allo scorso maggio – sarebbe finalmente giunto, secondo fonti militari americane, il momento opportuno per l’esercito iracheno per lanciare un’offensiva su Ramadi e sottrarne il controllo all’Isis. Per mesi l’avanzata è stata rallentata dai campi minati che gli uomini dello Stato Islamico hanno disposto a protezione delle loro postazioni e dall’impreparazione dell’esercito iracheno (fuggito senza combattere l’anno scorso di fronte all’avanzata del Califfato). Ma il quadro pare sia cambiato. Il portavoce della coalizione a guida Usa che combatte contro l’Isis, il colonnello Steve Warren, ha annunciato che – anche grazie all’intensificarsi dei bombardamenti americani nella zona – le forze irachene sono avanzate di alcune miglia negli ultimi giorni, circondando la città, e possono ora portare un attacco da quattro diverse direttrici. I soldati a disposizione di Baghdad – molti dei quali con addestramento Usa – sarebbero diecimila, contro il migliaio di uomini del Califfo che si stima siano ancora barricati nel centro urbano. La caduta di Ramadi alleggerirebbe la pressione dell’Isis su Baghdad e aprirebbe le porte dell’intera provincia di Anbar alle forze governative. Ma qui si pone un grave problema.
Da quando è stato abbattuta la dittatura di Saddam Hussein – già durante gli anni di occupazione americana ma in modo ancor più evidente dopo il ritiro del 2011 – l’Iraq è sempre più diventato uno Stato sciita (sciita è la maggioranza della popolazione), e sempre meno uno multietnico. Al nord i curdi godono di un’autonomia che sfiora l’indipendenza, a nel resto del Paese la minoranza sunnita è stata sempre più gravemente sottorappresentata. Il precedente premier, lo sciita Al Maliki, aveva già esasperato gli animi dei sunniti reprimendone violentemente le proteste nel 2011 e facendo arrestare alcuni loro leader, ponendo così le basi per una facile penetrazione dello Stato Islamico. L’avvicinamento costante poi tra Baghdad e Teheran, unito all’impiego di milizie irregolari sciite nel contrasto all’Isis, ha definitivamente logorato quel che restava dei rapporti tra le maggiori tribù sunnite dell’area e il governo centrale. Le milizie sunnite che affiancano le truppe governative rappresentano sempre più una minoranza all’interno della comunità. Se alla eventuale caduta di Ramadi facessero seguito violenze settarie da parte degli sciiti contro la popolazione civile sunnita, sarebbe facile immaginare che – piuttosto che subire un simile destino – l’intera provincia di Anbar preferisca schierarsi in pieno sostegno degli uomini del Califfato, rendendo la guerra al gruppo terroristico una snervante avanzata paese per paese, casa per casa. La sempre maggior vicinanza tra Iran e Iraq ha dunque portato a quest’ultimo un importante contributo militare nel contrasto all’Isis, ma rischia di complicare ulteriormente la situazione, qualificando definitivamente l’offensiva al Califfato come ennesimo capitolo della guerra intra-religiosa tra sunniti e sciiti.
Il potere di attrazione sull’Iraq da parte di Teheran è di recente stato tale da portare Baghdad dallo stesso lato della barricata anche degli altri alleati dell’Iran: Russia e Siria. Di recente è stato creato nella capitale irachena un centro di coordinamento nella lotta all’Isis che riunisce uomini di Mosca, Damasco, Teheran e Baghdad. Non solo. Secondo quanto riportato dalla Reuters l’aviazione irachena starebbe già utilizzando le informazioni di intelligence prodotte da tale centro per colpire obiettivi dello Stato Islamico. Addirittura circolano voci secondo cui l’Iraq potrebbe nel prossimo futuro chiedere, come già ha fatto la Siria, un intervento diretto e più consistente dell’apparato militare russo per contrastare il Califfato. Queste notizie ovviamente creano grande apprensione negli Stati Uniti, timorosi di perdere presa su un Paese che hanno contribuito a ricreare – dopo aver distrutto nella guerra del 2003 –, in cui hanno investito miliardi di dollari e che considerano un partner strategico (viste anche le ingenti risorse petrolifere) per il futuro.
Ultimo tassello del mosaico iracheno è poi la questione curda. Già praticamente indipendenti, i curdi moderati iracheni si stanno sempre più avvicinando – complice il comune sforzo bellico contro l’Isis – a quelli marxisti siriani (collegati al Pkk curdo in Turchia). Se dal caos siriano emergesse un’entità autonoma curda, legata a quella irachena, la distanza verso uno Stato indipendente si ridurrebbe drasticamente. Questo non solo scatenerebbe le ire (e forse più) della Turchia e gli appetiti delle potenze internazionali (Russi e Iraniani potrebbero cercare di cavalcare l’indipendentismo curdo per conquistare una pedina ricca di risorse e strategicamente posizionata sulla cartina; l’America potrebbe provare a contrastare questa mossa avallando a sua volta le richieste curde, anche a rischio di scontentare l’alleato turco), ma rischierebbe di dare il via a quella disgregazione degli Stati multiconfessionali (non solo Iraq ma anche Siria, Yemen, Bahrein etc) che tanti temono possa far definitivamente esplodere quel che resta dell’ordine mediorientale.
@TommasoCanetta
Per contrastare l’ascesa dello Stato Islamico, nell’agosto 2014 la dottrina del presidente Obama prevedeva: “Prima l’Iraq”. “Prima” rispetto alla Siria, l’altro Stato in cui il Califfato controlla parte del territorio. Questa decisione nasceva da varie considerazioni. A Baghdad, in primo luogo, il governo (prima di Al Maliki, poi di Al Abadi) è alleato degli Stati Uniti – a differenza del regime siriano di Bashar al Assad – e ha chiesto direttamente il supporto americano.
L’esercito statunitense poi conosce molto meglio il territorio iracheno, presidiato per otto anni dopo l’invasione del 2003. Infine, e soprattutto, lo scenario iracheno è meno complicato di quello siriano (un caos iper-frammentario dilaniato dagli interessi delle potenze regionali), politicamente prima ancora che militarmente. In Siria infatti lo Stato Islamico si scontra con la dittatura di Assad, contro cui combattono – indirettamente, armando diversi gruppi ribelli – anche gli alleati regionali di Washington, Turchia e Sauditi in testa.