Le politiche sociali, l’occupazione e un welfare europeo comune sono obiettivi fondamentali per parlare con chi resta indietro
La dimensione sociale si è sviluppata lentamente in Europa, non da ultimo perché – come noto – il processo di integrazione europeo è nato, innanzitutto, intorno a temi strettamente economici, del tutto estranei a una dimensione che includesse, con chiarezza, la prospettiva di un welfare comune.
Tuttavia, in oltre sessant’anni di vita comune, la crescita positiva dell’interdipendenza economica ha portato con sé – e per fortuna – anche il progresso di politiche nazionali verso forme di armonizzazioni comuni che incoraggiassero da parte della stessa Unione Europea la creazione di leggi, fondi economici e strumenti comunitari per coordinare e monitorare le politiche nazionali anche su temi sociali, e, del pari, un’Unione Europea abile (e disponibile) a rafforzare le proprie strategie nei settori quali l’inclusione sociale, la povertà e le pensioni.
Questo doppio movimento – un processo di armonizzazione e di coordinamento interno fra gli Stati e uno del pari della Commissione Europea verso questi ultimi – ha rafforzato così quelle interdipendenze che fanno oggi una parte importante di quella dimensione, anche sociale, dell’Europa che conosciamo.
Certo, non vi è chi non veda che la dimensione sociale dell’Europa è inferiore – in qualche caso, molto inferiore – a quello che molti di noi si aspetterebbero, non da ultimo per la tradizione culturale che in tema l’Europa ha mostrato ed espresso al mondo intero; e della quale non si può essere che fieri, a maggior ragione considerato che le competenze dell’Unione Europea in campo sociale – e qui sta un punto importante che aspetta l’Europa che nascerà dopo il voto del maggio prossimo − sono limitate, poiché, per quanto riguarda l’occupazione e le politiche sociali, sono innanzitutto i Governi nazionali a giocare un ruolo principale, definendo essi, ad esempio, il salario minimo, gli accordi collettivi, le pensioni e le indennità di disoccupazione.
Eppure, pur essendo ridotte le competenze dell’Unione Europea riguardo alla dimensione sociale, alcuni progressi sono stati fatti: così sono stati introdotti, fin dai Trattati di Roma del 1957, principi importanti quali la parità di retribuzione tra le donne e gli uomini e il diritto dei lavoratori di muoversi liberamente all’interno dell’Unione, e poi, proprio per favorire e dinamicizzare lo spostamento dei lavoratori all’interno del territorio europeo, sono state introdotte nuove leggi per garantire il trattamento medico all’estero e per assicurare che i diritti pensionistici già acquisiti in patria non vadano perduti nel nuovo Paese di impiego, così come per il reciproco riconoscimento dei titoli di studio (basti pensare all’Erasmus per gli studenti e al programma Leonardo per i lavoratori). Al tempo stesso, non mancano neanche regole minime europee che qualificano e marcano le condizioni e l’orario di lavoro così come anche leggi per combattere la discriminazione sul luogo di lavoro e per assicurare la sicurezza e la salute dei lavoratori.
Insomma, passi avanti, seppur piccoli, ve ne sono stati. E tutti, se si vuole, nella giusta direzione: quella di favorire il più possibile un’azione comune europea per rafforzare la dimensione sociale della stessa Unione, e, con ciò facendo, dunque, favorire politiche più attive nelle materie sociali, tali da dare forza valoriale e tessuto connettivo sociale più solido anche alla stessa integrazione economica europea.
Perno principale che oggi qualifica la prospettiva decisionale che aspetterà tanto il prossimo Parlamento Europeo che eleggeremo quanto la prossima Commissione Europea è il Pilastro europeo dei diritti sociali, presentato nel novembre 2017 congiuntamente dal Parlamento Europeo, dal Consiglio e dalla Commissione: uno strumento per favorire, tramite 20 principi chiave che si vengono a realizzare attraverso diverse iniziative politico-normative di natura legale, un mercato del lavoro e dei sistemi di welfare più equi e ben funzionanti, incentrati innanzitutto su tre aree: uguali opportunità e accesso al mercato del lavoro; condizioni di lavoro eque; protezione sociale adeguata e sostenibile.
Naturalmente si tratta di un programma europeo che dovrà essere interpretato e promosso alla luce di un sistema di valori chiari e comuni, tali da favorire il rafforzamento di una interdipendenza reciproca tra gli Stati e non, invece, chiusure e conflitti. In questo senso, sarà assai complesso, come già si intravede, il sostegno a questo programma da parte di quei Paesi (e di quei partiti politici) che fanno degli istinti autarchici, propri di una falsa sovranità, il Governo delle loro realtà ordinamentali.
È bene essere infatti consapevoli che se, fin dagli inizi dell’integrazione europea, il Parlamento Europeo ha spesso richiesto una politica più attiva nel campo sociale, i progressi raggiunti trovano sempre più un freno, oggi, da parte di quelle forze politiche che, tra il già e il non ancora, provano a realizzare forme politiche di tipo introflesso, usando cioè l’Europa come strumento in negativo per esaltare, al contrario, i propri successi all’interno. È una storia nota, che tuttavia nel corso degli ultimi anni si è venuta a rafforzare, comportando così non pochi problemi proprio per l’avanzamento e il miglioramento di quella dimensione sociale che qualifica e marca la grande differenza tra l’Unione Europea (e i Paesi che la compongono) e i Paesi – anche molto avanzati – fuori dalla stessa, che non a caso guardano, non di rado con invidia, alle tutele e alle garanzie offerte dall’ordinamento europeo nel combinato disposto con gli ordinamenti nazionali. Non è un caso, d’altronde, che, già nel Discorso sull’Unione del 2016, il Presidente della Commissione Europea Juncker avesse sottolineato che «Gli Stati membri devono costruire un’Europa che protegge. E noi, istituzioni europee, dobbiamo aiutarli a mantenere questa promessa».
La strada dunque di un rafforzamento nuovo dei diritti sociali dei cittadini passa, sempre più, nel coordinamento europeo dei regimi di sicurezza sociale nell’Unione, permettendo così di rafforzare, tramite anche lo strumento principale dell’Unione Europea per la promozione dell’occupazione e dell’inclusione sociale − cioè il Fondo sociale europeo −, quel supporto ai lavoratori che perdono l’impiego a causa di cambiamenti dei modelli di commercio globali; cambiamenti che, inevitabilmente, non possono essere affrontati tramite le piccole politiche dei singoli Stati nazionali, come invece molta propaganda politica sottolinea.
Serve, insomma, un cambio di passo in Europa, per offrire un sostegno meglio indirizzato e integrato e per affrontare, di fronte alle sfide di un tempo più veloce, anche i problemi legati alla digitalizzazione e ai cambiamenti dell’ambiente (come la transizione all’economia a basse emissioni di carbonio), i quali, riverberandosi sulle nostre vite, provocano anche quella disoccupazione giovanile in ingresso che rappresenta il vero rischio di prospettiva per un’Europa che guarda alla solidarietà, in primis intergenerazionale, come valore espressivo dell’idea stessa di comunità europea.
Disuguaglianze, fratture sociali, rallentamenti nello sviluppo economico, saranno allora il terreno sul quale misurare le proposte politiche in vista del voto europeo, ben consapevoli che, senza dare centralità al dialogo tra partner sociali e Istituzioni europee, la dimensione sociale dell’Unione non potrà davvero essere neanche quel motore di sviluppo economico che storicamente, invece, è stata.
@ClementiF
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di marzo/aprile di eastwest.
Puoi acquistare la rivista in edicola o abbonarti.
Le politiche sociali, l’occupazione e un welfare europeo comune sono obiettivi fondamentali per parlare con chi resta indietro