Dovrebbero farne le spese gli azionisti innanzitutto. Quindi gli obbligazionisti che hanno assunto dei rischi. Invece, finiranno per saldare il conto anche i contribuenti
Le banche non devono fallire mai. E dai tempi del crack dell’Ambrosiano di Calvi che lo si dice. Ne va del tessuto economico irrorato dal sistema finanziario degli istituti di credito: mutui, fidi e prestiti agli imprenditori e alle famiglie, anticipi di pagamento degli stipendi e delle pensioni, ristrutturazioni, gestione dei capitali e dei risparmi e via dicendo. Se crolla l’istituto di credito crolla tutto, si interrompe la circolazione del sangue dell’organismo e la regione economica di riferimento si impoverisce. A maggior ragione se parliamo di una popolare o di una cassa di risparmio, tradizionalmente legata al territorio e ai suoi bisogni concreti.
Malauguratamente le banche in Italia falliscono spesso. Solo per citare gli esempi più recenti potremmo andare al 2015 e alle famose quattro banche che annoveravano nel gruppo Etruria, allo scandalo Monte Paschi, alle due popolari venete, ai problemi delle casse di Cesena, Rimini e San Miniato e alla Carige a inizio 2019.
Ogni dissesto va preso a sé e non si può fare di tutta un’erba un fascio. Ma in molti casi l’istituto di credito anziché essere funzionale al territorio, come dovrebbe essere, diventava un crocevia di poteri locali e nazionali, prebende ed elargizioni politiche, bilanci malati, acquisizioni avventate per sindrome da “grandeur” di finanza napoleonica, azioni in cambio di crediti, scarsa trasparenza, gestione opaca, manipolazioni del mercato se non veri e propri raggiri e truffe. E infatti tutto finisce nel mirino della magistratura che indaga per varie ipotesi di reato, tra cui truffa, ostacolo all’attività della Banca d’Italia e raggiro nel prospetto informativo consegnato alla Consob.
Anche nel caso della Banca popolare di Bari, una delle ultime grandi banche del sud ci si muove in un contesto del genere. Dopo il commissariamento deciso da Bankitalia con la nomina dei commissari, oltre ai rischi per i correntisti e il personale, ci troviamo di fronte al deterioramento del capitale per un miliardo e mezzo di euro, in mano a 70 mila soci. A rigor di logica (e di patti sottoscritti, oltre che di legge) sono loro i garanti del capitale della banca. In una società di libero mercato chi sottoscrive azioni di un istituto di credito ne condivide necessariamente anche i rischi.
Il problema è che almeno un terzo, a detta delle associazioni di difesa dei consumatori, sono state vittime di vendite fraudolente o simil-fraudolente. Nel senso che non avevano la minima cognizione del rischio cui andavano incontro. In tal caso, sarà la magistratura ad appurare le truffe allo sportello. È capitato – in alcuni casi e non certo per tutto il sistema bancario italiano, che è sano – che quel commesso non sia stato all’altezza dei suoi doveri informativi. Ad esempio che a dividendi alti corrisponde un rischio sul capitale proporzionalmente alto. Oppure ha fornito un prospetto informativo lacunoso. Quanti “soci” della popolare di Bari, ovvero clienti allo sportello, sapevano di tutto questo? Hanno comprato azioni della banca a 9,53 euro e oggi si vedono i titoli fermi a 2,38, prima che vengano azzerate del tutto.
Le banche non devono fallire mai. E infatti alla fine non falliscono. Vengono messe in amministrazione controllata, ricapitalizzate e rimesse sul binario del credito. Si calcola che si siano persi nelle ultime crisi almeno 30 miliardi di euro, il valore di una manovra economica media. La logica dei risanamenti privati regolati dall’Unione Europea funziona poco in Italia. A pagare sono quasi sempre i consorzi bancari o più frequentemente lo Stato (per i due terzi dei casi). Ma è inutile prendersela con la vigilanza della Banca d’Italia (che ha sempre vigilato finché veniva data la possibilità e non venivano elusi i controlli). Troppo facile cercare capri espiatori e dipingere il solito “complotto” dei poteri forti.
@f_anfossi
Dovrebbero farne le spese gli azionisti innanzitutto. Quindi gli obbligazionisti che hanno assunto dei rischi. Invece, finiranno per saldare il conto anche i contribuenti
Le banche non devono fallire mai. E dai tempi del crack dell’Ambrosiano di Calvi che lo si dice. Ne va del tessuto economico irrorato dal sistema finanziario degli istituti di credito: mutui, fidi e prestiti agli imprenditori e alle famiglie, anticipi di pagamento degli stipendi e delle pensioni, ristrutturazioni, gestione dei capitali e dei risparmi e via dicendo. Se crolla l’istituto di credito crolla tutto, si interrompe la circolazione del sangue dell’organismo e la regione economica di riferimento si impoverisce. A maggior ragione se parliamo di una popolare o di una cassa di risparmio, tradizionalmente legata al territorio e ai suoi bisogni concreti.