Jihadisti: l'Europa è preoccupata per il rimpatrio dei cittadini europei che hanno sposato la causa jihadista in Siria e Iraq. In epoca di sovranismi e chiusure l’istanza umanitaria viene meno
Jihadisti: l’Europa è preoccupata per il rimpatrio dei cittadini europei che hanno sposato la causa jihadista in Siria e Iraq. In epoca di sovranismi e chiusure l’istanza umanitaria viene meno
Tra la fine del 2019 e l’inizio del 2020 lo scenario mediorientale è stato radicalmente stravolto. L’intervento turco nella Siria settentrionale, avallato dagli Usa, e l’uccisione del generale iraniano Qassem Soleimani da parte di Washington a inizio gennaio hanno portato la guerra contro lo Stato Islamico a nuova fase.
Tra le innumerevoli conseguenze di questo mutato quadro bellico, è emerso lo spinoso tema del rimpatrio dei cittadini europei accorsi in Siria e Iraq per consacrarsi alla causa jihadista, assieme ai loro familiari. Dopo il collasso dello Stato Islamico, la maggior parte di essi era stata relegata nelle carceri controllate dalle milizie curdo-siriane (YPG) – gli alleati poi traditi dalla Casa Bianca – nel nord della Siria. Milizie cui era stata demandata anche la gestione dei campi rifugiati improvvisati dove erano stati radunati i familiari dei miliziani islamisti. Dopo la calata di Ankara oltre l’Eufrate, i curdo-siriani hanno affermato di non essere più in grado di garantire la massima sorveglianza di questi spazi, paventando la possibilità di evasioni di massa. Di fronte al rischio che migliaia di ex jihadisti riprendessero le armi, o peggio penetrassero in territorio turco, Ankara ha quindi fatto la voce grossa, intimando ai Governi europei di rimpatriare i connazionali. Lo scorso novembre il Ministro degli Interni turco Süleyman Soylu non ha usato mezze misure, dichiarando che il Paese anatolico non sarebbe diventato “un hotel per affiliati dell’Is”. Il perentorio diktat turco ha colto impreparati i partner del Vecchio Continente, che hanno cercato di ottemperarvi obtorto collo, senza però elaborare una strategia ragionata e condivisa.
Calcolare con esattezza quanti cittadini europei siano detenuti in Siria è quasi impossibile. Alle difficoltà oggettive connaturate al dover reperire dati certi in uno scenario bellico, si abbinano anche alcuni problemi di natura giuridica. Poiché molti dei miliziani jihadisti avevano bruciato il passaporto non appena giunti in Medio Oriente, e, a loro volta, alcuni Stati (Danimarca e Regno Unito) avevano scelto di revocare la cittadinanza ai propri cittadini partiti per il jihad, determinare oggi la nazionalità di questi individui è molto complesso. Le stime diffuse dall’autorevole istituto Egmont alla fine del 2019 parlano di circa 12.000 miliziani rinchiusi nelle carceri curde. Di questi, 2000 sarebbero classificabili come foreign fighters, ovvero cittadini né siriani né iracheni; tra essi, si conterebbero tra 430 e 800 individui con passaporto europeo. Donne e bambini, invece, sono perlopiù concentrati in tre estesi campi rifugiati: al-Hol, al-Roj e Ain Issa. Secondo le stime dell’UNCHR, si tratterebbe di 11.000 persone; più di due terzi sarebbero bambini con meno di 12 anni. Se figli di uno o due genitori con cittadinanza europea, sulla carta avrebbero diritto a ricevere la cittadinanza. Tuttavia, i loro genitori si sono solitamente sposati tramite un rito di matrimonio officiato da autorità dello Stato Islamico, quindi non riconosciuto dalle madrepatrie europee. Come considerarne la prole nata in Medio Oriente? Cittadini, e quindi attivarsi per il rimpatrio, o no, quindi lasciarli nel mezzo del conflitto, in balia di attori militari di vario genere? Ilham Atrass, del RAN (Radicalization Awareness Network), sottolinea che “i bambini nati o condotti dai genitori nei territori del Califfato soffrono sia per la violenza a cui hanno assistito, sia per il fatto che il loro normale sviluppo emotivo-cognitivo è stato interrotto dall’esperienza traumatica della guerra. È però provato che essi possono riprendersi dal trauma e sviluppare strategie di resilienza quando inseriti in un ambiente adeguato, che li faccia sentire protetti”.
Concretamente, sebbene ora pare si stiano muovendo anche altri Paesi, l’Italia è stata il primo Stato Ue ad aver rimpatriato almeno un ex miliziano: Samir Bougana, venticinquenne bresciano con genitori marocchini, attualmente sotto processo. Gli Stati membri da cui sono partiti più islamisti in assoluto – Francia e Germania – sono invece parsi restii a procedere al rimpatrio dei propri cittadini, ventilando l’intenzione di adoperarsi esclusivamente per far tornare a casa donne e bambini. Sul tema, sono stati dunque i paesi balcanici a dettare la linea al resto del continente. Lo scorso dicembre la Bosnia, primo Paese europeo a stabilire pene detentive per i propri cittadini arruolatisi in organizzazioniterroristiche di ispirazione islamica (2014), ha rimpatriato 25 persone (sette miliziani). Similmente, lo scorso aprile il Kosovo, tra i primi ad aprire istituti di de-radicalizzazione per i foreign fighters tornati in patria, aveva riportato a casa 110 cittadini (quattro miliziani).
Agli occhi del decisore europeo, la spinosità di questo dossier deriva dall’esigenza di conciliare tre istanze diverse, in gran parte antitetiche: diritto, politica, sicurezza. In epoca di sovranismi e chiusure, alle opinioni pubbliche del continente l’istanza umanitaria (prestare aiuto a connazionali in stato di necessità) non sembra stare particolarmente a cuore.
Eppure, il diritto internazionale, per esempio con le risoluzioni 2178 (2014) e 2396 (2017) del Consiglio di Sicurezza Onu, parla chiaro: gli Stati sono tenuti a prodigarsi per il rimpatrio dei propri cittadini in condizioni di pericolo, a maggior ragione quando bambini (risoluzione 2427, del 2018). Essendo però il tema facilmente strumentalizzabile dall’estrema destra populista in chiave securitaria, i Governi stanno muovendosi in direzione opposta. L’esempio più eclatante ha riguardato Shamima Begum, cittadina britannica con genitori bengalesi, partita per la Siria all’età di quindici anni. Dopo che nel febbraio 2019 Begum aveva richiesto di poter tornare nel Regno Unito con il figlio, Londra aveva deciso di toglierle la cittadinanza. Un’azione illegale secondo il diritto britannico, che prevede una simile possibilità solo nel caso in cui il soggetto colpito dal provvedimento goda di doppia cittadinanza, e quindi non divenga conseguentemente apolide. Sulla stessa lunghezza d’onda anche la Francia, che la scorsa estate ha protestato contro la condanna a morte per terrorismo comminata a undici suoi cittadini processati in Iraq, senza però dirsi disponibile al rimpatrio. Casi del genere testimoniano quanto, nel maneggiare la delicata questione del rimpatrio di cittadini (ex) islamisti, sia alto il rischio di compiere forzature che costituirebbero un vulnus potenzialmente fatale per lo stato di diritto dei Paesi europei.
Inoltre, per quanto riguarda l’aspetto securitario, se tutti concordano sul fatto che questi individui vadano processati una volta giunti in patria, l’apparato normativo-giudiziario palesa però delle lacune. Come qualificare la fattispecie di reato? Il supporto fornito dalle donne, dedicatesi principalmente alla cura di figli e al focolare domestico, come può essere considerato? Come valutare le responsabilità individuali senza appontare processi alle intenzioni? La difficoltà di raccogliere prove decisive delle azioni compiute dagli imputati in Medio Oriente potrebbe tradursi nell’emissione di pene leggere. Si creerebbe dunque il rischio che questi soggetti tornino a piede libero in breve tempo, approfittandone forse per dedicarsi ad operazioni di proselitismo e radicalizzazione, rialimentando la polemica politica.
Se la sorte che toccherà a ex jihadisti e parenti è a oggi insondabile, il dato geopolitico è invece cristallino: la Turchia continua ad avere gioco facile nelle relazioni con l’Ue, specialmente dove il dente duole di più (sicurezza, migranti, rifugiati). La “Commissione geopolitica” guidata da Ursula von der Leyen farebbe bene a prenderne nota.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di marzo/aprile di eastwest.
Tra la fine del 2019 e l’inizio del 2020 lo scenario mediorientale è stato radicalmente stravolto. L’intervento turco nella Siria settentrionale, avallato dagli Usa, e l’uccisione del generale iraniano Qassem Soleimani da parte di Washington a inizio gennaio hanno portato la guerra contro lo Stato Islamico a nuova fase.
Tra le innumerevoli conseguenze di questo mutato quadro bellico, è emerso lo spinoso tema del rimpatrio dei cittadini europei accorsi in Siria e Iraq per consacrarsi alla causa jihadista, assieme ai loro familiari. Dopo il collasso dello Stato Islamico, la maggior parte di essi era stata relegata nelle carceri controllate dalle milizie curdo-siriane (YPG) – gli alleati poi traditi dalla Casa Bianca – nel nord della Siria. Milizie cui era stata demandata anche la gestione dei campi rifugiati improvvisati dove erano stati radunati i familiari dei miliziani islamisti. Dopo la calata di Ankara oltre l’Eufrate, i curdo-siriani hanno affermato di non essere più in grado di garantire la massima sorveglianza di questi spazi, paventando la possibilità di evasioni di massa. Di fronte al rischio che migliaia di ex jihadisti riprendessero le armi, o peggio penetrassero in territorio turco, Ankara ha quindi fatto la voce grossa, intimando ai Governi europei di rimpatriare i connazionali. Lo scorso novembre il Ministro degli Interni turco Süleyman Soylu non ha usato mezze misure, dichiarando che il Paese anatolico non sarebbe diventato “un hotel per affiliati dell’Is”. Il perentorio diktat turco ha colto impreparati i partner del Vecchio Continente, che hanno cercato di ottemperarvi obtorto collo, senza però elaborare una strategia ragionata e condivisa.
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