In tre settimane la politica americana è stata stravolta. Il 27 giugno, la notte del dibattito tra Joe Biden e Donald Trump, ha messo in moto una serie di eventi che oggi consegnano all’America, e al mondo, una campagna elettorale molto diversa. In mezzo, un attentato fallito contro Trump e il primo millennials candidato in un ticket presidenziale.
Subito dopo la sua lettera di addio consegnata a X, Biden ha lanciato il suo supporto per Kamala Harris. La sua vice ha accolto la sfida è nel giro di una manciata di ore ha preso in mano la sua candidatura. I due giorni successivi sono iniziati al meglio per il partito democratico, più di qualche giornalista e analista americano ha sottolineato che fare più di così era impossibile. In poco tempo, a colpi di telefonate e strette di mano, Harris si è garantita sia l’appoggio della maggioranza dei delegati alla prossima convention di Chicago che prenderà il via il 19 agosto, che gli endorsement di peso di quasi tutto l’establishment del partito. È arrivato l’appoggio dei Clinton, della grande tessitrice dell’addio di Biden, Nancy Pelosi, di quasi tutti i deputati e senatori che avevano chiesto all’81enne Biden un passo indietro, l’appoggio di tutti i governatori dem, e pure delle leadership di Camera e Senato: Hakeem Jeffrie e Chuck Schumer. All’appello manca solo Obama.
Poi è arrivato anche il sostegno dello star system: Hollywood con George Clooney in testa e Beyoncé che ha regalato la sua “Freedom” alla campagna Harris. Poi sono tornati anche i soldi: almeno un centinaio di milioni di dollari raccolti in circa 24 ore da oltre un milione di piccoli finanziatori. Infine, come ciliegina, sono arrivati i primi sondaggi positivi: secondo una rilevazione di Reuters e Ipsos Harris sarebbe avanti di due punti su Donald Trump, 44% a 42%. Grattando un po’ la patina dell’entusiasmo dem si capisce, però, che il lavoro elettorale da fare è tantissimo.
Harris pronta a cambiare tutto
La vice di Biden sta scegliendo un approccio misto: conferma e rivoluzione. In una visita al quartier generale della campagna dem a Wilmington, nel Delaware, Harris ha ribadito di voler tenere nei posti di comando sia Julie Chávez Rodríguez che Jen O’Malley Dillion, rispettivamente manager della campagna e presidente del comitato. Ma, scrive Politico, ci sarebbe l’intenzione di portare a bordo altre figure, primo fra tutti David Plouffe, l’ex capo della campagna elettorale di Barack Obama nel 2008. Bakari Sellers, ex deputato del Sud Carolina e consigliere di Harris, ha spiegato che in questa fase il lavoro da fare è tanto: “Stiamo costruendo l’aereo mentre lo pilotiamo. Ma Harris sarà ovunque, il suo messaggio verrà lanciato ovunque e sarà diverso da qualsiasi cosa già vista”.
I dem e Harris hanno 100 giorni per mettere in piedi una campagna elettorale convincente. Il primo passo che la nuova macchina dovrà mettere a punto è la reintroduzione di Harris al pubblico. Durante la sua vicepresidenza ha avuto una prima fase di esposizione sostanzialmente fallimentare, come ha dimostrato soprattutto il suo viaggio in Centroamerica per fermare le carovane dei migranti e i piccoli scandali fatti filtrare dal suo staff, spesso nel caos. Negli ultimi due anni la Casa Bianca ha provato a cambiare approccio su di lei. Le uscite e le gaffe sono diminuite e oggi Harris potrebbe, almeno sulla carta, presentarsi agli americani quasi come un foglio bianco.
Lo staff sta ora lavorando a come dovrà rispondere agli attacchi di Trump e come condurre il suo programma. Stando a una ventina di voci vicine alla campagna Harris raccolte da Politico il piano è di lavorare prima di tutto sugli Stati in bilico, e infatti una delle primissime uscite da candidata è stata in Wisconsin. Poi si lavorerà sull’attaccare a testa bassa il candidato repubblicano. Sempre dal Badger State, Harris ha affondato il colpo dicendo che in carriera ha già affrontato truffatori e predatori sessuali. Questo passaggio, in particolare, sarà un tema costante da qui al 5 novembre. Se Harris verrà confermata alla convention, per i prossimi mesi ci aspettano confronti a distanza più simili a quelli di un’aula di tribunale che a una campagna elettorale. Fonti vicine all’entourage della vicepresidente hanno detto che Harris farà leva sul suo passato da procuratrice per combattere il “pregiudicato Trump”. Altro punto della campagna sarà attaccare il fantomatico Project 2025, il piano dell’Heritage Foundation, think tank conservatore vicino a Trump, che ridisegnerebbe parte del governo federale.
I 3 nomi per la vicepresidenza
Il tempo è poco anche per un altro punto non banale. Il candidato vice di Harris. La rosa di nomi iniziale comprendeva tutto il gotha del partito democratico, ma al momento, i papabili sembrano essersi ridotti a tre. Come nota il Financial Times i donatori più vicini a Harris avrebbero detto che la riflessione sarebbe concentrata su tre nomi: il senatore dell’Arizona Mark Kelly, il governatore della Pennsylvania Josh Shapiro e il governatore del Nord Carolina Roy Cooper. Si tratta di tre candidati molto diversi tra di loro, con punti di forza che possono imprimere a tutta la campagna elettorale una direzione diversa.
Cooper per Harris rappresenta esperienza e garanzia. È il più anziano di tutti, ha vinto in uno Stato repubblicano e come Harris ha un passato da governatore. Kelly, invece, ha le caratteristiche dell’eroe americano. Ex marinaio ma soprattutto ex astronauta. È senatore di uno Stato in bilico e porterebbe un’immagine centrista nel ticket, senza dimenticare il peso della sua vita personale. La moglie Gabby Giffords, ex deputata al Congresso, è stata ferita in modo gravissimo in un tentativo di assassino nel 2011 a Tucson. Il più interessante dei tre è forse Shapiro. Giovane, ha 51 anni, porterebbe in dote la Pennsylvania, senza la quale è impossibile vincere l’elezione. Tutti e tre si incastrerebbero poi con le caratteristiche di Harris.
I 5 punti di forza
Harris mostra punti di forza che fanno ben sperare i dem. Il primo ovviamente ha a che fare con l’età. Negli ultimi mesi si è parlato solo ed esclusivamente dell’età di Biden e del suo declino cognitivo. Con Harris questo tema viene completamente spazzato via, dato che i suoi 58 anni rendono automaticamente Trump l’anziano. Da mesi i sondaggi condotti tra gli americani dimostrano che la massima preoccupazione rispetto alla candidatura di Biden riguardava i suoi 81 anni. Ora quel tema semplicemente non esiste più.
Il secondo punto ha a che fare con i fondi. L’elemento che ha pesato più di tutti nel ritiro di Biden è stato sicuramente il grande movimento dei finanziatori che hanno congelato i soldi destinati al comitato elettorale. Ora quei soldi possono tornare a fluire e come abbiamo visto arrivano già in abbondanza. In più Harris è l’unica che può accedere già alla liquidità nella casse del comitato di Biden dato che è collegato al ticket presidenziale che porta anche il suo nome. Il Gop ha annunciato ricorsi contro l’uso di quei fondi, ma secondo i legali dei dem il cambio di nome alla Commissione elettorale federale è solo una semplice formalità.
Altro punto di forza per Harris riguarda l’entusiasmo. Da mesi l’indice di gradimento di Biden era in calo, ma soprattutto i segmenti elettorali che avevano accompagnato la sua vittoria del 2020 si stavano allontanando da lui. Per qualche settimana sembrava che Trump fosse in grado di recuperare voti da elettori che mai, quattro o otto anni fa, avrebbero preso in considerazione l’ipotesi di votare repubblicano. Harris porterebbe entusiasmo tra le donne, i giovani e una fetta delle minoranze, in particolare elettori di origine afroamericana e asiatica. Il primo riflesso di questo entusiasmo è arrivato dai volontari. Voci della campagna dem hanno detto che in poco meno di due giorni quasi 60 mila persone si sono candidate per fare le volontarie.
Dalla parte di Harris ci sarebbe poi la sua storia personale. Molto americana e molto di sinistra. In più di un’occasione ha raccontato che i genitori la portavano alle marce per i diritti civili quando ancora era nel passeggino. Poi una storia di successo elettorale con gli anni da procuratrice in California e poi l’elezione al Senato. Harris, in caso di nomination prima e vittoria elettorale poi, sarebbe la prima donna nera e asiatica ad abbattere due soffitti di cristallo. Il tutto in un Paese molto diverso da quello che nel 2016 bocciò Hillary Clinton.
Si tratta di un Paese diverso anche per un’altra ragione: la battaglia sull’aborto innescata dopo la decisione della Corte Suprema di cancellare Roe vs Wade, la storica sentenza che garantiva l’aborto a livello federale. Negli ultimi due anni l’attivismo su questa materia e l’astio di un pezzo sempre più grande di Paese nei confronti dei repubblicani sono cresciuti enormemente e saranno benzina soprattutto per la campagna di Harris. Non a caso lo stesso Biden l’ha scelta come volto della campagna Reproductive Freedoms Tour lanciata nel gennaio scorso per sensibilizzare gli americani sui temi di salute riproduttiva.
I nodi di Trump: cambiare la campagna
Per tutte queste ragioni Harris rappresenta una sfida complessa per il tandem Trump-Vance e il suo comitato elettorale, anche per un ciclo dei media che almeno per un mese sarà concentrato solo su Harris. Per mesi Chris LaCivita e a Susie Wiles, i due responsabili della campagna del tycoon, hanno impostato il messaggio politico sulla senilità di Biden e la sua debolezza. Da settimane tv e soprattutto social erano invasi di video, alcuni anche pesantemente ritoccati, che mostravano Biden claudicante, assente, a tratti incapace di intendere. Oggi tutto quel materiale non serve più e il messaggio perde di efficacia. Un lunghissimo articolo dell’Atlantic di qualche mese fa spiegava che in privato LaCivita e Wiles pregavano per la conferma di Biden.
Più di qualcuno ha sottolineato che anche la nomina di JD Vance come vicepresidente rifletteva questa strategia e che oggi, con l’ingresso di Kamala la scelta potrebbe non pagare. In realtà Harris ha dei punti deboli. Il primo riguarda la sua persona. Nel 2019 quando la senatrice si candidò alle primarie democratiche per la presidenza, il New York Times la descrisse come un’irregolare che cambia spesso messaggio e tattiche senza un ancoraggio ideologico forte. Tradotto: un’opportunista. A questo si aggiunge una prima fase della sua vicepresidenza abbastanza disastrosa.
Il dossier che più di tutti può costarle caro e su cui i repubblicani convertiranno gli attacchi, è quello sull’immigrazione. Il tema preoccupa la gran parte degli americani (soprattutto la minoranza ispanica) e su questo Harris e tutta l’amministrazione Biden hanno faticato a dare risposte.
C’è poi un ultimo punto: Harris convincerà i colletti blu a votarla? Una fetta degli elettori del Mid-West nel 2016 scelse di non andare a votare e regalò Stati fondamentali come Pennsylvania, Michigan e Wisconsin a Trump. Quattro anni dopo, un uomo del sindacato Joe Biden li ha riportati alle urne. Harris ha una storia soprattutto californiana, lontana da quella fetta di America. Se da un lato le sigle sindacali hanno appoggiato subito la sua candidatura, dall’altro non è detto che gli operai le seguiranno. E infatti voci della sua campagna iniziano a dire che forse il percorso verso la Casa Bianca potrebbe non passare dalla conquista di quei tre stati, ma magari più a Sud, in Georgia, Arizona e Nevada.
Subito dopo la sua lettera di addio consegnata a X, Biden ha lanciato il suo supporto per Kamala Harris. La sua vice ha accolto la sfida è nel giro di una manciata di ore ha preso in mano la sua candidatura. I due giorni successivi sono iniziati al meglio per il partito democratico, più di qualche giornalista e analista americano ha sottolineato che fare più di così era impossibile. In poco tempo, a colpi di telefonate e strette di mano, Harris si è garantita sia l’appoggio della maggioranza dei delegati alla prossima convention di Chicago che prenderà il via il 19 agosto, che gli endorsement di peso di quasi tutto l’establishment del partito. È arrivato l’appoggio dei Clinton, della grande tessitrice dell’addio di Biden, Nancy Pelosi, di quasi tutti i deputati e senatori che avevano chiesto all’81enne Biden un passo indietro, l’appoggio di tutti i governatori dem, e pure delle leadership di Camera e Senato: Hakeem Jeffrie e Chuck Schumer. All’appello manca solo Obama.
Poi è arrivato anche il sostegno dello star system: Hollywood con George Clooney in testa e Beyoncé che ha regalato la sua “Freedom” alla campagna Harris. Poi sono tornati anche i soldi: almeno un centinaio di milioni di dollari raccolti in circa 24 ore da oltre un milione di piccoli finanziatori. Infine, come ciliegina, sono arrivati i primi sondaggi positivi: secondo una rilevazione di Reuters e Ipsos Harris sarebbe avanti di due punti su Donald Trump, 44% a 42%. Grattando un po’ la patina dell’entusiasmo dem si capisce, però, che il lavoro elettorale da fare è tantissimo.