Khartum gioca col fuoco
Dopo le sanzioni, la politica sudanese azzarda schieramenti contrapposti in cerca di soluzioni per la crisi economica in cui il Paese è sprofondato.
Dopo le sanzioni, la politica sudanese azzarda schieramenti contrapposti in cerca di soluzioni per la crisi economica in cui il Paese è sprofondato.
Dopo una ventina d’anni di isolamento, il Sudan si è riaffacciato sulla scena internazionale giocando a tutto campo tra paesi ed alleanze diverse. Tra gli obiettivi di questa scelta diplomatica, certamente il principale è trovare sponde per uscire dalla sempre più grave crisi economica in cui versa da quando il Sud Sudan ha voluto l’indipendenza, portando con sé il 75% delle riserve petrolifere, risorsa su cui si basava il bilancio del paese. Ma le radici dei problemi economici sono molteplici, ben più lontane e profonde.
Khartoum ne ha sempre attribuito le maggiori responsabilità alle sanzioni imposte nel 1997 dagli Stati Uniti, con l’accusa di favorire il terrorismo. Da allora una costante del suo lavoro diplomatico è stata l’abrogazione del provvedimento. Avrebbe così potuto sperare di ottenere almeno una riduzione del suo enorme debito e di attrarre investimenti, procurando così ossigeno alla sua asfittica economia. Il processo per la revoca delle sanzioni è arrivato a compimento lo scorso ottobre.
Indubbiamente un importante risultato, bilanciato dal presidente sudanese Omar Hassan al-Bashir il mese successivo a Mosca dove ha siglato numerosi accordi di cooperazione che prevedono, tra l’altro, la costruzione della prima centrale per la produzione di energia atomica, training militare, la fornitura di un certo numero di Su-35, l’ultimo modello di jet da combattimento, e altro ancora per un valore stimato da fonti russe attorno al miliardo di dollari. D’altra parte è risaputo che anche nel passato l’Unione Sovietica è stata il maggior partner sudanese nel settore militare. La sorpresa è venuta dalle dichiarazioni del presidente al-Bashir, che, nell’occasione, ha sottolineato come il rafforzamento militare darà al suo paese “protezione dalle azioni aggressive degli Usa”. Ha poi deprecato le interferenze americane nell’area, causa della crisi mediorientale oltre che della divisione del suo paese e del conflitto in Darfur. E ha concluso offrendosi come apriporta di Mosca in Africa. Un discorso di aperta sfida agli Stati Uniti che potrebbe aver avuto anche ragioni interne. Potrebbe essere stato un segnale a chi, tra i suoi, si sarebbe dimostrato un po’ troppo filoamericano, rendendo così palese un conflitto nella leadership che avrebbe portato dopo pochi mesi, lo scorso aprile, al siluramento del ministro degli esteri, Ibrahim Gandour, e poi al rimpasto del governo.
Anche a livello regionale Khartoum cerca difficili equilibri tra i due schieramenti che si confrontano sull’altra sponda del Mar Rosso e tra le diverse anime politico – ideologiche del paese. Pure in questo caso le ragioni sarebbero eminentemente economiche. “Il fattore principale di indirizzo delle relazioni estere è la situazione della ”banca del Sudan”” sostiene Magdi El Gizouli, un analista sudanese, riferendosi allo stato dell’economia in generale. Sarebbe dunque per la gravità della crisi economica interna che il Sudan avrebbe deciso di tagliare i legami decennali con l’Iran, schierandosi nella crisi yemenita con la coalizione guidata dall’Arabia Saudita, sua antagonista nella regione, e partecipando attivamente al conflitto con qualche migliaio di soldati. La contropartita sarebbe stato l’incremento consistente del supporto economico dai paesi di quella coalizione. Secondo Sudan Vision, un sito vicino al governo, solo gli aiuti sauditi sarebbero passati da 11 miliardi di dollari nel 2015 a 16 nel 2016.
Ma con il protrarsi del conflitto e l’evoluzione delle relazioni regionali il governo di Khartoum potrebbe dover scegliere ancora una volta da che parte stare. I problemi di collocazione sono cominciati con l’imposizione del blocco al Qatar da parte dell’Arabia Saudita. La ragione sono i solidi legami di Doha con l’Iran, che sostiene gli Houthi contro la coalizione saudita nella guerra dello Yemen. A difesa del Qatar si è schierata la Turchia, rafforzando il suo contingente militare nel paese. Il governo sudanese non ha voluto prendere posizione. Anzi ha segnalato un consolidamento delle sue relazioni con i governi turco e qatariano, con i quali condivide solide alleanze, oltre all’ideologia dell’Islam politico secondo le modalità della fratellanza musulmana.
Lo scorso dicembre il presidente turco Erdogan è stato ricevuto a Khartoum in una visita definita come storica dalla stampa dei due paesi. Tra i numerosi accordi stipulati in quell’occasione ha suscitato particolare interesse quello relativo alla concessione alla Turchia dell’isola di Suakin, un antico insediamento ottomano in posizione strategica di fronte alle coste saudite. L’accordo, ufficialmente, riguarda il restauro degli antichi edifici risalenti all’epoca ottomana, ma non mancano i sospetti che il vero obiettivo sia l’inizio di una presenza militare turca nella zona. Lo scorso marzo è stato stipulato un accordo anche con il Qatar per Suakin. 4 miliardi di dollari per sviluppare il porto e farlo diventare il secondo del paese, dopo Port Sudan, che si trova a una sessantina di miglia a nord, sulla stessa costa.
Le decisioni di Khartoum hanno aumentato la tensione in tutta la regione in particolare con l’Egitto, sospettoso di chi sostiene i Fratelli musulmani, e con l’Eritrea, che pure partecipa attivamente alla coalizione saudita. Nelle prime settimane dell’anno si è registrato un aumento delle truppe sudanesi sul confine eritreo, circostanza che ha fatto addirittura temere che si preparasse uno scontro armato. Poi la tensione si è allentata. Ma il nodo della partecipazione alla coalizione saudita rimane.
All’inizio di maggio il ministro della difesa in un’audizione parlamentare ha affermato che si stava riconsiderando la partecipazione alla guerra in Yemen, dove le truppe sudanesi avrebbero avuto ingenti perdite. Anche l’opposizione più vicina all’ideologia dei Fratelli Musulmani preme perché il paese si sfili dall’accordo. Voci ricorrenti dicono che pure l’Arabia Saudita stia pressando Khartoum, nella direzione opposta. Per attivare nuovi ingenti stanziamenti chiede una precisa scelta di campo. I prossimi mesi potrebbero dunque portare ancora novità nelle complesse relazioni diplomatiche e negli equilibri interni sudanesi.
Dopo le sanzioni, la politica sudanese azzarda schieramenti contrapposti in cerca di soluzioni per la crisi economica in cui il Paese è sprofondato.
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