Una politica dell’ansia, tensione tra guerra e difesa, tra abbraccio con l’Ovest e fuga liberatoria verso Est. Un Paese combattuto prima che combattente.
Israele è una nazione sin dalla sua fondazione storicamente in tensione tra un’aspirazione a essere un paese normale e la difficoltà a esserlo compiutamente. Combattuto tra la tentazione all’isolamento, generata dalla specificità della sua nascita,equella a fondersi nel consesso delle altre nazioni,per la tensione universalistica dell’umanesimo sionista. Questa dialettica spiega perché il dibattito strategico in Israele assuma sempre ansiosi connotati esistenziali, e si riapra come una ferita mai rimarginataogni qualvolta mutano le condizioni esterne. Come in questo passaggio storico, nel quale tutto il Medioriente è in subbuglio.
L’attuale intensità e asprezza di questo dibattito in Israele potrebbe sorprendere un osservatore distratto. In fondo, Israele sembrerebbe inattaccabile da ogni esercito e ogni critica. Ma non è così. Anche se non visibile in superficie e per lo più incomprensibile ai non ebrei, la compresenza di grande forza ed estrema fragilità ne costituisce la ansiosa cifra profonda. Tanto che già Levi Eskhollo definì un Sansone derneberkhediker, un colosso dai piedi d’argilla. Con il fallimento di Oslo tale ansia esistenziale si è accresciuta. Le successive quattro vittorie di Netanyahu – 1996, 2009, 2013 e 2015 – ne sono al contempo suggello e ulteriore catalizzatore. In tutto lo spettro politico israeliano e della diaspora c’è unanime consenso sulla diagnosi: Israele non è al sicuro. Un’angoscia comprensibile, se si guarda la carta geografica e si leggono i libri di storia. Ma è sulla cura che le strade divergono. Di qui la lotta tra destra e sinistra israeliane – ed ebraiche – sul futuro del sionismo: come garantire la sicurezza dello Stato d’Israele? Da sinistra si sottolinea come solo la pace e dunque uno Stato palestinese possa salvarne la doppia caratteristica voluta da Ben Gurion di Stato ebraico e democratico: in assenza di pace, la soverchiante demografia palestinese costringerà Israele a scegliere uno tra i due termini e quindi a cambiare natura. La soluzione è in definitiva vista nell’abbandonare un pericoloso isolazionismoper entrare, anche pagando un prezzo in termini territoriali, nel consesso degli stati occidentali “normali”. Perché a sinistra la preminenza è data al Popolo, rispetto alla Terra.
A destra invece i termini sono invertiti. In questa parte del campo politico, di cui è guida Netanyahu, si evidenziacome solo “un muro d’acciaio” isolazionista d’inesausta ostilità contro i vicini arabi o islamici possa proteggere Israele. Un muro che può finire per erigersi sdegnoso anche nei rapporti con il resto dei paesi occidentali. Israele è intangibilmente fatto così, prendere o lasciare.
L’incredibile continuità politica di Netanyahu, unico premier di Israele rieletto 4 volte, è lì a testimoniare l’attuale popolarità di questa sua Weltanschauung presso l’opinione pubblica israeliana. Diventato egemonicodopo l’11 settembre, questo paradigma ha cominciato a essere sfidato e messo in discussione solo recentemente, con l’accordo di Obama sul nucleare iraniano.
Tale duello si è avuto non tanto sulla tradizionale e oramai velleitariatentazione di ogni Presidente Usa a realizzare un accordo con i palestinesi, quanto sull’originale visione di un rapporto politico con l’Iran, visto da Obama come utile per gli interessi nazionali statunitensi ma anche come chiave di volta di un nuovo ordine regionale,di cui si sente sempre più l’urgenza, dopo il crollo di quello precedente, cominciato nel 2003 se non nel 1991, e sancito nel 2011. Del resto, il merito dello scontro tra Obama e Netanyahu sull’accordo con l’Iran è tutto politico e al fondo sulla natura dell’avversario. Così come 20 anni prima quello con Rabin era sulla natura del movimento nazionale palestinese. Per Netanyahu la natura del regime degli ayatollah – ma lo stesso si potrebbe dire del vecchio nemico, i palestinesi – è intangibilmente malvagia perché monocorde, e soprattutto non può mutare né in meglio né rinunciare allo scopo finale, che sarebbe l’annientamento di Israele. Per Obama invece, come lo fu per Rabin, con i nemici si tratta perché la loro natura – come quella di tutti – è politica e complessa, e dunque muta con il mutare delle condizioni. E può essere obbligata a mantenere patti, grazie ai rapporti di forza, e a evolversi verso un regime di negoziazione se non di convivenza. La forza delle posizioni di Netanyahu è che “perfino i paranoici hanno nemici reali”. La loro debolezza è che non hanno risposta alla domanda “quali sono le alternative?”, se non una ricetta di Guerra Infinita e una strenua lotta per lo status quo.
Ma gli status quo non sono eterni. Non lo è quello con i palestinesi, come si vede ancora una volta in questi tragicimesi di terrorismo disperato da lupi solitari. E non lo è più quello nella regione dopo le cosiddette “primavere Arabe”, e soprattutto ora con la presenza dell’ISIS, un terrorismo jihadista che però si fa Stato. Di fronte a questi nuovi terrorismi, Netanyahu non ha più come dopo l’11 settembre l’unica ricetta, né quella più valida. Al contrario di 20 anni fa. E surroga analisi di cui non è più capace con percezioni di paure, rifugiandosi in quella che già Leo Strauss definiva la reductio adHitlerium, sia nei rapporti con i palestinesi – le dichiarazioni sul Gran Muftì di Gerusalemme come inventore della “soluzione finale” – sia nei rapporti con l’Iran. Ma le analogie possono soddisfare bisogni psicologici, non costituire una politica.
Per questo oggi in Israele si è riaperto un dibattito su dove debba andare il sionismo. Al centro di questo dibattito vi è il tema dell’attuale isolamento internazionale di Israele nel campo occidentale. Un isolamento non nuovo, sebbene ora più forte che nel passato, ma oggi posto al centro del dibattito sul sionismo perché rivendicato come splendido (e non occasionale) dalla destra,e al contrariovisto come pericolo mortale dalla sinistra e dagli apparati di sicurezza israeliani. Un isolamento frutto di quella visione di “eccezionalità” che è stata ritenuta negli ultimi due decenni condizione necessaria per poter vivere, ma ora sentita sempre più come non sufficiente.
Proprio per evitare di rinunciare all’eccezionalità di Israele nel campo occidentale, soprattutto verso la matrigna Europa, Netanyahu sta cercando di creare una via d’uscita strategica verso l’Asia. “Noi siamo profondamente parte dell’Occidente” ha dichiarato recentemente il premier israeliano, “ma guardiamo a Est. Apprezziamo l’Europa, ma ammiriamo l’Asia”. Sono di qualche giorno fa rivelazioni di contatti strategici con l’Indonesia. Nel frattempo gli export israeliani verso i paesi asiatici sono triplicati tra il 2004 e il 2014, raggiungendo la cifra di 16,7 miliardi di dollari, un quinto dell’export totale di Israele. E nel 2014 l’Asia ha superato gli Stati Uniti come seconda destinazione dell’export dopo l’Europa. E anche se le relazioni con la Cina sono state aperte solo nel 1992, si lavora a un accordo di libero scambio. Mentre piani similari sono in itinere con l’India.
Se a questo tipo di autoisolamento – che molti e deleteri effetti ha sulle opinioni pubbliche europee, e quindi sul rafforzamento di una tendenza all’antisemitismo già endogeno – si sommano poi le dinamiche esterne di generale ridefinizione di un ordine regionale, alle quali Israele è estraneo sia per differente natura sia perché potenza dello status quo, si capisce come esse concorrano ancor più a estraniare Israele dalla sua regione. Del resto saggiamente, come nel 1991 durante la prima Guerra del Golfo, Israele ha scelto di mettersi ai margini più riparati dello scontro che infuria in tutto il Levante con la guerra in Siria, l’ascesa della metastasi dell’ISIS e lo sconvolgimento che interessa praticamente tutta l’Africa del Nord, a partire dalla Libia.
Rimane quindi irrisolto, nonostante il palliativo di una valvola di sfogo verso l’Asia, il grande interrogativo di quanto sia sostenibile nel tempo questo isolamento. Un isolamento che preoccupa tutto lo “Stato Profondo”, costituito dagli apparati di sicurezza – L’IDF, il Mossad, lo ShinBet e Aman, l’intelligence militare – perché è aggravato da un inedito ma oramai conclamato scontro politico di visioni con la Casa Bianca di Obama, e reso ancor più pericoloso per lo Stato dalla concomitanza di altri fattori: la rottura negli ultimi decenni con alleati strategici come la Turchia, e la ripresa virulenta di un sentimento antisraeliano e a tratti antisemita in tutta Europa e tra le giovani generazioni occidentali. Oltretutto ciò avviene in un contesto regionale dove si susseguono le crisi, ed esse diventano da politiche a militari. Dove deve andare Israele? Il paese si trova a un bivio. Il sionismo della fondazione si è esaurito per il suo stesso successo. E come succede per l’Unione Europea, è crisi se un organismo politico rimane fermo e isolato in un mondo che incessantemente cambia. Israele, come l’Ue, o si rifonda o affonda. Ma su quali basi? Non sono questioni irrilevanti. Perché Israele è il cuore dell’occidente. E definirne il futuro è anche definire noi stessi.
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Una politica dell’ansia, tensione tra guerra e difesa, tra abbraccio con l’Ovest e fuga liberatoria verso Est. Un Paese combattuto prima che combattente.
Israele è una nazione sin dalla sua fondazione storicamente in tensione tra un’aspirazione a essere un paese normale e la difficoltà a esserlo compiutamente. Combattuto tra la tentazione all’isolamento, generata dalla specificità della sua nascita,equella a fondersi nel consesso delle altre nazioni,per la tensione universalistica dell’umanesimo sionista. Questa dialettica spiega perché il dibattito strategico in Israele assuma sempre ansiosi connotati esistenziali, e si riapra come una ferita mai rimarginataogni qualvolta mutano le condizioni esterne. Come in questo passaggio storico, nel quale tutto il Medioriente è in subbuglio.