LE ONG – Ong: l’altro welfare? [Parte 1]
Sono 10 milioni nel mondo, sono indipendenti ma collaborano con i governi, con i quali condividono la vocazione pubblica e sociale
Sono 10 milioni nel mondo, sono indipendenti ma collaborano con i governi, con i quali condividono la vocazione pubblica e sociale
Da oramai lunghi decenni le Ong, organizzazioni non governative, svolgono un ruolo di supporto per i singoli governi come per le istituzioni sovranazionali, in diversissimi campi d’intervento, dall’umanitario all’ambientale, da quello medico allo psicosociale, fino alla ricostruzione urbana in post emergenza o alla valorizzazione dei valori culturali e storico monumentali. Sono tanti i Paesi in cui gli interventi delle Ong sono diventati di fatto una sorta di “secondo welfare”: risorse economiche, conoscenza capillare dei territori, professionalità specifiche sono state messe a disposizione del bene pubblico per portare aiuto e assistenza non soltanto nei paesi più poveri. Una forza che è diventata fondamentale per raggiungere la popolazione più vulnerabile anche nelle nazioni più ricche e industrializzate. Tanto che una ricerca condotta dal The Global Journal, sostiene che al mondo vi sono oggi circa 10 milioni di Ong.
Il temine “organizzazione non governativa” appare per la prima volta nell’articolo 71 della Carta delle Nazioni Unite, all’interno della quale si prevede la possibilità che il Consiglio economico e sociale possa consultare “organizzazioni non governative interessate alle questioni che rientrano nella sua competenza”. Secondo la Risoluzione delle Nazioni Unite 1996/31 “è considerata come un’organizzazione non governativa un’organizzazione che non è stata costituita da una entità pubblica o da un accordo intergovernativo, anche se essa accetta membri designati dalle autorità pubbliche ma a condizione che la presenza di tali membri non nuoccia alla sua libertà di espressione”.
E se già in questa risoluzione si intravede come il rapporto tra i governi e le Ong non appaia né semplice né lineare è perché, in buona sostanza, non può esserlo. E non può esserlo per la contraddizione intrinseca che genera quel rapporto. La Ong si definisce ‘non governativa’ eppure ha bisogno del governo sia per i permessi necessari ad operare nel territorio d’intervento, sia – spesso − per i finanziamenti. È chiaro che il problema sta in ciò che si pone nella definizione di ‘non governativo’. Cosa si vuole davvero intendere con tale definizione negativa? Che non si agisce su comando governativo, certamente; eppure, sia perché spesso i fondi che finanziano l’operato hanno quell’origine, sia perché senza consenso governativo anche l’azione di una Ong, sebbene finanziata da fonti diverse, non potrebbe effettuarsi, la relazione tra governo e Ong è connaturata a un’ampia area grigia, di indeterminatezza e di equivoco. E che sia così lo provano migliaia di esempi, fino ai più drammatici, dove in diversi casi personale di Ong, inteso erroneamente come collaborazionista del governo in carica, viene fatto segno di attacco mortale da forze militari di opposizione.
Occorre dunque tornare alla domanda precedente: cosa si vuole intendere nei fatti, al di là della terminologia burocratica, con ‘non governativo’? Una prima risposta può essere questa: si vuole riconoscere un ruolo intermediario tra il governo e la ‘missione’ che la Ong si dà. Il governo ha compiti svariati e generali, la Ong ha uno scopo determinato, sul quale rimane del tutto focalizzata, ottenendo per altro aiuti economici anche dal mondo privato. In tal senso l’intermediazione va bene sia ai governi, che possono delegare aspetti altrimenti troppo costosi e complicati – a volte addirittura impopolari − alle Ong, sia a queste che così ottengono una certa libertà di manovra, in molti casi finanziamenti e soprattutto identità.
E infatti la negazione nella definizione di ‘non governativo’ non indica opposizione quanto piuttosto differenza e principalmente ‘indipendenza’. La Ong deve sottolineare la differenza perché il campo della propria missione è spesso lo stesso del governo ma ad un livello di focalizzazione ed impegno superiore. Non c’è governo che, ad esempio, non abbia tra i propri compiti la salute pubblica eppure anche nei paesi più sviluppati, le Ong apportano un grado ulteriore di specializzazione, focalizzazione e servizio.
Nella relazione complessa tra governo e Ong entra poi e sempre più il pubblico, a cui entrambi si rivolgono per fini contrari: elettorali in un caso, per supporto finanziario e d’opinione nell’altro. E infatti spesso le Ong accusano pubblicamente i governi di non dedicare l’attenzione che sarebbe dovuta al campo della loro missione, mentre i governi scaricano sovente sulle Ong le proprie difficoltà operative o i contrasti interni alla propria linea politica. Al riguardo il caso del governo italiano nella crisi migratoria del 2017 è esemplare. In quell’anno diverse Ong si dedicano al salvataggio di migranti nelle acque del Mediterraneo, seguendo il dettato imprescindibile della propria missione ed in ciò ‘vicariando’ l’incapacità europea e italiana di soccorrere efficacemente le persone a rischio di morte. Ma socialmente si crea nel pubblico un’ansia, pilotata da forze politicamente avverse al governo in carica, in relazione all’ingresso irregolare in Italia e in Europa dei migranti. Per cercare di sedare l’ansia e salvare il governo dall’accusa che gli elettori potrebbero rivolgergli, questo, tramite un ‘codice di condotta’ impartito alle Ong, scarica su di esse la responsabilità non certo di ‘salvare vite’ – il che sarebbe stato moralmente inaccettabile − ma di ‘importare’ migrazione irregolare. Ne nasce una campagna mediatica contro le Ong e il pubblico, che fino ad allora aveva avuto un elevato indice di fiducia nei confronti di esse, diventa sempre più incerto e dubbioso, quasi che dietro tali esseri ‘non governativi’ si celi qualcosa di misterioso ed – ecco la parola − di ingovernabile! Esplose così sotto gli occhi di tutti l’intrinseca contraddizione che sempre costituisce quel rapporto tra governi e Ong, a cui abbiamo accennato.
Cosa ci dice tutto ciò se pensiamo al futuro? Personalmente credo, con viva preoccupazione, che nei prossimi decenni la contraddizione si farà via via più stridente. Infatti per diversi motivi che qui non possiamo approfondire, i governi anche democratici avranno sempre più difficoltà a garantirsi il consenso pubblico; l’era dei social e lo sviluppo di una comunicazione pubblica sempre più diretta, globale e difficilmente pilotabile aumenterà la sfiducia nelle istituzioni, coinvolgendo in questa definizione anche le Ong, almeno le più grandi e internazionali. Dall’altra parte però di esse ci sarà sempre più bisogno, tanto più al crescere della debolezza dei governi, sia politica che tecnica, di fronte a sfide drammatiche come, solo per fare un esempio, quelle imposte dal cambiamento climatico. Il pubblico, bombardato da segnali contrastanti, tenderà a muoversi di colpo da una posizione ad un’altra, appoggiandosi e allontanandosi dalle Ong, a secondo dei casi e dei momenti.
Tuttavia rimane una speranza, che in questa difficile dialettica il pubblico impari cosa realmente sono le Ong, quale formidabile possibilità culturale, politica, sociale esse possono esprimere e quindi ne faccia strumento essenziale della dinamica politica futura. E a questo riguardo, di fronte ad un futuro inquietante, ci può soccorrere il passato. Proviamo per un attimo a guardare al tempo in cui non c’era ancora la definizione di Ong ma nondimeno si ponevano le basi fondamentali del loro emergere ed agire nella società moderna. Prendiamo il caso di Save the Children, che è oggi la più grande Ong internazionale dedicata alla difesa dei bambini e degli adolescenti.
Quasi cento anni fa, nel 1919, una donna visionaria, Eglantyne Jebb, fondava Save the Children. La Jebb denunciava le gravi conseguenze dell’embargo del governo britannico nei confronti di Austria e Germania, dove i bambini morivano letteralmente di fame. Ma il governo britannico era fermamente deciso a non dare aiuti al nemico sconfitto. La Jebb venne arrestata ma infine ottenne l’attenzione che ricercava sul tema della sua missione. Nell’estate del 1919, scrisse a Papa Benedetto XV per avere il supporto della Chiesa contro la carestia. In risposta al suo appello, nel novembre dello stesso anno, il Papa scrive l’Enciclica Paterno Iam Diu, chiedendo a tutte le chiese del mondo di raccogliere fondi per l’infanzia e l’anno successivo, nell’enciclica Annus iam Planus est, loda pubblicamente Save the Children per il suo lavoro. Per la prima volta nella storia un’organizzazione non confessionale veniva così promossa e supportata dalla Chiesa Cattolica. E da lì nacque ancora qualcosa di ulteriore. Si estese infatti il concetto stesso di ‘diritto umano’. Alle soglie del ventesimo secolo il “bambino” veniva ancora considerato solo in riferimento al mondo adulto; un adulto non del tutto compiuto, non una persona con proprie specifiche esigenze di tipo affettivo, psicologico, intellettivo. Un soggetto privo di diritti. Ma nel 1923, la Jebb, a seguito degli eventi che portarono alla fondazione di Save the Children, stilò la prima Carta internazionale dei diritti del bambino, affinché: “ogni bambino affamato sia nutrito, ogni bambino malato sia curato, ad ogni orfano, bambino di strada o ai margini della società sia data protezione e supporto”. La Jebb inviò la Carta alla Società delle Nazioni, e il testo venne adottato l’anno successivo il 26 settembre 1924, con il nome di Dichiarazione di Ginevra e costituì poi la base, nel 1989, per la Convenzione Onu sui diritti dell’Infanzia e dell’Adolescenza.
Tutto dunque nacque dall’obbligatorio bisogno morale di riconoscere il dolore dei bambini più poveri e vulnerabili, i bambini degli sconfitti, al di là di ogni considerazione politica che la fine della guerra imponeva. Fu un’azione ‘non governativa’ a portare poi i governi di quasi tutto il mondo a sottoscrivere la carta dei diritti dell’Infanzia.
E allora, se da un semplice grido di denuncia è potuto nascere un movimento morale e culturale in grado di essere recepito dalla Chiesa cattolica e poi via via da governi e confessioni diverse in ogni parte della terra, trasformandosi infine in una grande Ong internazionale che, in quasi 100 anni, ha salvato milioni di bambini e promosso una nuova sensibilità a riguardo dei diritti dell’infanzia altrimenti inconcepibile, allora possiamo sperare e anzi di più, credere, che anche in uno scenario diverso, in parte oggi inimmaginabile, le Ong sapranno ancora rappresentare, pur nell’inevitabile conflittualità con la politica del momento, valori imprescindibili in qualsivoglia dibattito o conflittualità sociale. E sia, almeno questo, l’auspicio per i 100 anni a venire.
Trovate l’articolo nella rivista cartacea di eastwest in vendita in edicola.
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