Un nuovo brutale atto di terrorismo, come lo ha definito il presidente somalo Hassan Sheikh, due giorni fa ha insanguinato Mogadiscio. L’attacco era stato ben pianificato: dopo che mercoledì alle 17,40 ora locale, un attentatore suicida si era lanciato con un’auto distruggendo le barriere di sicurezza poste all’ingresso dell’hotel Ambassador, un commando di tre uomini armati ha fatto irruzione nell’albergo dando inizio all’assedio durato oltre dieci ore.
La polizia è intervenuta circondando l’edificio di cinque piani e isolando la zona, fino alle prime ore di ieri, quando le forze di sicurezza somale hanno ucciso i tre miliziani islamisti che si erano nascosti all’interno della struttura, mettendo fine all’assedio costato la vita ad almeno sedici persone, tra i quali ci sono anche due parlamentari e due guardie addette alla sicurezza. I feriti sono oltre sessanta.
L’ipotesi di una rappresaglia
L’attentato è stato rivendicato attraverso la propria emittente radiofonica dagli estremisti di al-Shabaab, che di recente hanno effettuato una serie di attacchi simili anche in altre città della Somalia.
L’assalto all’Ambassador potrebbe essere stato programmato per la vigilia del mese di Ramadan, che vede i terroristi islamici tradizionalmente molto attivi. È anche probabile l’ipotesi di una rappresaglia perché l’azione è stata compiuta quattro gironi dopo l’annuncio del Pentagono di un raid aereo nel corso del quale è rimasto ucciso uno dei più influenti comandanti del gruppo:Abdullahi Haji Da’ud.
Tuttavia, la rappresaglia potrebbe aver avuto luogo per vendicare l’eliminazione di Mohamed Mohamud, noto con il nome di Dulyadayn o con quello di Kuno, resa nota dalle autorità somale poche ore prima dell’attacco all’albergo di Mogadiscio.
Mohamud era considerato la “mente” del massacro dell’aprile dello scorso anno nel campus universitario di Garissa, in Kenya, dove persero la vita 148 persone, in gran parte studenti cristiani.
L’assalto di mercoledì conferma che sebbene gli islamisti somali siano stati cacciati da Mogadiscio nel 2011, controllano ancora gran parte delle aree periferiche nel sud e nel centro della Somalia e hanno mantenuto inalterata la capacità di portare a termine azioni per alimentare il clima di tensione, in vista delle elezioni presidenziali previste per il prossimo agosto.
Tutto questo, evidenzia che il gruppo costituisce ancora una temibile minaccia per la Somalia e anche per altri Paesi della regione, come Kenya e Uganda, dove ha sferrato attacchi letali su larga scala.
Alla fine di febbraio, l’Heritage Institute for Policy Studies di Mogadiscio ha pubblicato un report sulla situazione politico-militare in Somalia. I due autori dello studio, Paul Williams e Abdirashid Hashi, sono dell’opinione che l’AMISOM, la missione dell’Unione africana in Somalia, forte di 22mila effettivi, da sola non ha più la forza per sconfiggere i ribelli islamici.
I due analisti ritengono che la missione di peacekeeping, segnata dai dissidi interni e dalla mancanza di coordinamento tra i paesi fornitori di truppe, non sarà in grado di raggiungere i suoi obiettivi fino a quando l’esercito somalo non aumenterà la propria efficienza nella lotta al gruppo jihadista, per garantire la sicurezza nel Paese.
Ancora più estreme le considerazioni dell’accademico norvegese Stig Jarle Hansen, considerato tra i massimi esperti di al-Shabaab e autore di numerosi libri sui gruppi jihadisti africani. Hansen si spinge ad affermare che il gruppo estremista, forte del supporto locale, per altri trent’anni sarà in grado di continuare a costituire una seria minaccia per sei paesi dell’Africa orientale.
La visita di Erdogan a Mogadiscio
Infine, va sottolineato che la carneficina all’albergo Ambassador si è consumata alla vigilia della visita ufficiale del presidente turco Recep Tayyip Erdogan a Mogadiscio, dove è atteso nel fine settimana per inaugurare la sede dell’ambasciata, la più grande del governo turco in tutto il continente africano.
Nell’agosto del 2011, Erdogan è stato il primo leader non africano a visitare la Somalia negli ultimi due decenni. Il presidente turco è tornato a Mogadiscio nel gennaio dello scorso anno, per inaugurare l’aeroporto internazionale e un ospedale finanziati dalla Turchia.
Ankara ha dedicato particolare attenzione alla crisi somala e per trovare una soluzione all’annosa questione, nel maggio 2010 e nel giugno 2012, ha ospitato a Istanbul due conferenze internazionali sulla Somalia.
L’esperienza del martoriato Paese del Corno d’Africa è l’esempio di come Ankara utilizzi tutti gli strumenti di soft power a sua disposizione per accrescere la propria influenza nel continente.
@afrofocus
Un nuovo brutale atto di terrorismo, come lo ha definito il presidente somalo Hassan Sheikh, due giorni fa ha insanguinato Mogadiscio. L’attacco era stato ben pianificato: dopo che mercoledì alle 17,40 ora locale, un attentatore suicida si era lanciato con un’auto distruggendo le barriere di sicurezza poste all’ingresso dell’hotel Ambassador, un commando di tre uomini armati ha fatto irruzione nell’albergo dando inizio all’assedio durato oltre dieci ore.
La polizia è intervenuta circondando l’edificio di cinque piani e isolando la zona, fino alle prime ore di ieri, quando le forze di sicurezza somale hanno ucciso i tre miliziani islamisti che si erano nascosti all’interno della struttura, mettendo fine all’assedio costato la vita ad almeno sedici persone, tra i quali ci sono anche due parlamentari e due guardie addette alla sicurezza. I feriti sono oltre sessanta.