Un caos in cui comandano tutti e non comanda nessuno. Il vero game-changer oggi appare sempre di più essere la piazza, quelle proteste che aumentano con il tempo che passa
Un caos in cui comandano tutti e non comanda nessuno. Il vero game-changer oggi appare sempre di più essere la piazza, quelle proteste che aumentano con il tempo che passa
C’è chi lo chiama “Medio Oriente post-americano”, o “Medio Oriente multipolare”. Tutte definizioni che lasciano spesso il tempo che trovano. L’America, infatti, non se ne è mai andata, pur avendo perso l’egemonia di un tempo, e perché una regione geopolitica sia davvero multipolare dovremmo vedere pochi capi e tanti gregari. Ma non è così. La descrizione più calzante del Medio Oriente odierno forse la dà Pierfrancesco Favino nei panni di “Libano” (soprannome particolarmente azzeccato per questo esempio) nel film Romanzo Criminale: “Se in un posto comandano tutti, vuol dire che non comanda nessuno”. È questo ormai il clima che pare emergere nella gestione di molte delle crisi più cruciali della regione, dalla Libia alla Siria, passando per il Golfo, l’Iran e l’Iraq. Certo, anche se non comanda nessuno possiamo comunque dire che alcuni giocatori sono stati, finora, assai più abili di altri.
Dal suo intervento in Sirianel 2015 la Russia è riuscita a ricostruire una influenza regionale di tutto rispetto usando con abilità i pochi veri strumenti di proiezione a sua disposizione: un esercito e una industria militare di un certo rilievo (anche se incomparabile a quella statunitense e destinata a essere presto superata dalla Cina) e una grande classe diplomatica, erede della tradizione sovietica. Altri, come gli Emirati Arabi Uniti (EAU) e il Qatar, dopo aver passato gran parte della propria storia moderna all’ombra di altre potenze, dalla Gran Bretagna agli Usa, sono assurti oggi a player indipendenti di primo piano nonostante la loro minuscola taglia territoriale e geografica, usando con disinvoltura il grande patrimonio messo loro a disposizione da ingenti riserve di idrocarburi. Anche la Turchia, dopo aver perlopiù ignorato il proprio vicinato orientale a favore dei suoi rapporti con l’Occidente per gran parte della sua storia repubblicana, da almeno un decennio è tornata a pesare nell’arena araba, diventando, nel bene e nel male, un interlocutore imprescindibile dalla Siria alla Libia e risvegliando in alcuni ricordi non sempre piacevoli di era ottomana.
Accanto a questi newcomer della politica mediorientale ritroviamo anche protagonisti più di vecchia data, come Arabia Saudita e Iran, la cui leadership oggi appare più appannata di una volta ma che sono sempre in grado di dire la propria su ogni partita della regione. Infine, dobbiamo compiere un certo sforzo per ricordarci di quelle nazioni con un passato da protagoniste e ormai da anni costrette a giostrarsi tra crisi politiche ed economiche interne e crescente irrilevanza internazionale. In questo novero più triste troviamo antiche glorie come l’Egitto, ormai entrato in una fase di stagnazionepolitica ed economica di cui è arduo vedere la fine, o la Giordania hascemita, un tempo protagonista dei giochi mediorientali e oggi costretta a elemosinare supporto finanziario da alleati vecchi e nuovi per una economia divenuta da tempo insostenibile. Ma il cono d’ombra forse più oscuro è quello che avvolge ormai da un decennio la causa palestinese, divenuta per molti dentro e fuori il Medio Oriente “acqua passata”, lasciata congelata in un perenne status quo di occupazione e segregazione. Ci voleva Donald Trump, e la sua proposta del Deal of Century per risvegliare, almeno per qualche giorno, l’attenzione (e l’indignazione) del mondo sulla Palestina.
La fine dell’egemonia americana ha quindi reso in pochi anni il mosaico politico del Medio Oriente assai più complesso e imprevedibile, spesso lasciando indietro commentatori ancora abituati a spiegarne le dinamiche usando filtri sviluppati durante la Guerra Fredda o l’era Bush. Ma per orientarsi nel dedalo di divisioni, alleanze e partnership tattiche che attraversano oggi questa regione trasformandosi velocemente servono oggi mappe nuove, da disegnare a matita per poterle cancellare e riscrivere dopo poco tempo. Certo, a ben guardare non tutto ciò che vediamo oggi è totalmente nuovo. Divisioni tradizionali, come quella tra Arabia Saudita e Iran, e i rispettivi alleati, resistono ancora nonostante altri profondi cambiamenti. Lo stesso vale per alleanze apparentemente inossidabili come quella tra Stati Uniti e Israele o tra Stati Uniti e Sauditi, oppure quelle, politicamente opposte, tra Iran, Siria, e movimenti non-statuali come l’Hezbollah libanese. Ma da oltre un decennio a queste faglie di divisione e conflitto tradizionali se ne sono sovrapposte altre, spesso assai più determinanti per l’evoluzione delle crisi odierne.
Per spiegare molto di ciò che vediamo oggi in scenari come Libia e Siria è infatti forse più utile guardare a una faglia politica di più recente formazione, emersa a partire dalle Primavere Arabe del 2011 e sviluppatasi negli anni seguenti in diverse aree di crisi del Medio Oriente. Una divisione che vede da una parte quegli stati che negli ultimi nove anni sono emersi come i più importanti sponsor della Fratellanza Musulmana internazionale e delle sue diramazioni in giro per la regione, come Turchia e Qatar, mentre, dall’altra, troviamo quelle potenze che dal 2011 si sono arrogate il compito di difendere lo status quo autoritario del Medio Oriente, come gli EAU e l’Arabia Saudita. Non una lotta, questa, tra due modelli radicalmente diversi – ad esempio democrazia liberale e dittatura – come forse molti di noi avevano sperato alla vigilia delle primavere arabe. Bensì il confronto tra la concezione tradizionale dello stato in Medio Oriente, dominato da regimi laici e autoritari sostenuti da élite militari ed economiche (spesso sovrapposte), e una sorta di populismo illiberale con venature islamiste. Quest’ultimo, pur essendo solo leggermente più democratico del primo, risulta oggi spesso più vicino ai gusti e ai riferimenti culturali delle masse mediorientali rispetto al laicismo autoritario e liberista top-down propugnato dai regimi tradizionali.
Ed è così che nei rari sondaggi compiuti tra le popolazioni arabe oggi ritroviamo Erdogan in cima alla lista dei leader più amati e solo molto più in fondo i nomi del Presidente egiziano al-Sisi, del principe saudita Mohammed bin Salman, o della Guida Suprema iraniana Khamenei. La prima grande partita tra questi due schieramenti forgiati dalle Primavere arabe l’abbiamo vista all’opera nel 2013, quando Mohammed Morsi, membro dei Fratelli Musulmani uscito vincitore dalle prime elezioni democratiche della storia egiziana, venne rovesciato dal colpo di stato del Generale Abdelfatah al-Sisi, massicciamente sostenuto da Sauditi ed Emiratini. E ancora nel 2017, quando Riadh e Abu Dhabi lanciarono il loro embargo politico-commerciale sul Qatar, accusato di sostenere il terrorismo internazionale, etichetta spesso usata in modo esteso per definire qualunque forma di Islam politico. Infine, è questa faglia di divisione ideologica relativamente nuova che caratterizza oggi gran parte degli sviluppi che vediamo ad esempio in Libia, dove il Governo di Serraj, sostenuto anche da gruppi vicini alla Fratellanza Musulmana, viene oggi difeso strenuamente dalla Turchia, mentre il suo rivale Haftar riceve il vitale sostegno di Emirati ed Egitto.
A dire il vero, potremmo dirci fortunati se bastassero questi due divide vecchi e nuovi a filtrare tutta la complessità del Medio Oriente di oggi. Ma purtroppo così non è. A sovrapporsi e mescolarsi a questi contrasti ideologico-egemonici vi sono inoltre le incursioni più o meno estemporanee di grandi attori internazionali, i tatticismi contingenti e le “convergenze parallele” tra avversari sulla carta, e gli effetti, spesso imprevisti, di tutte queste strategie sovrapposte.
C’è, per esempio, la Russia, per la quale il Medio Oriente è solo un campo da gioco di una partita ben più vasta mirata alla disgregazione e alla rinegoziazione dell’ordine liberale imposto dall’Occidente dopo la fine della Guerra Fredda. O la Turchia, principale sponsor dell’opposizione armata in Siria e del governo Serraj in Libia, che sembra trovarsi molto a suo agio a gestire queste crisi con Mosca, formalmente migliore alleato del regime di Assad e sostenitore del generale Haftar. Oppure gli EAU, tra i più stretti alleati dell’America e tra i migliori partner della Russia e di tutti coloro pronti a preservare lo status quo della regione. In un mondo dove ognuno gioca la sua partita con buone carte ma nessun vero asso nella manica anche le regole del gioco si trasformano rapidamente. Laddove un tempo c’erano eserciti e scontri tra stati troviamo oggi conflitti combattuti quasi solamente da partiti armati, milizie, mercenari, da una nuova collezione di entità non-statuali un tempo snobbate dagli analisti come semplice fattore residuo della politica mediorientale. Perfino in Siria o in Libia, dove spesso le parti in causa chiamano sé stesse “Governo legittimo”, “esercito nazionale”, a ben vedere gran parte di chi imbraccia le armi lo fa sotto le bandiere di una milizia o di una compagnia mercenaria.
Ma quel che più preoccupa davvero del nuovo Medio Oriente è il moltiplicarsi delle crisi prive di una vera soluzione all’orizzonte. Dalla Siria allo Yemen passando per la Libia, il moltiplicarsi degli attori coinvolti ha solo ingarbugliato matasse già enormemente intricate, congelando intere nazioni in conflitti senza fine. Perché nel Medio Oriente dove comandano tutti e nessuno ne basta uno per iniziare una guerra ma difficilmente saranno i tutti a mettervi fine. Ma attenzione: in questo nuovo ordine, che assomiglia tanto a un nuovo caos, con ogni probabilità la vera chiave di svolta non saranno né strabilianti vittorie militari né miracoli d’abilità diplomatica. Il vero game-changer oggi appare sempre di più essere la piazza, imprevedibile dai più, e spesso altrettanto travolgente: quelle proteste che dal 2011 non si sono mai veramente arrestate e che anzi, sembrano crescere e spargersi con il tempo che passa. Nelle Mille e una Notte, Sinbad il Marinaio si imbatte coi suoi compagni in un’isola che poi si rivela una balena pronta a inabissarsi. La piazza oggi appare sempre di più quella balena che si sta risvegliando, pronta a lasciare ben presto tutti questi innumerevoli leader a gambe all’aria.
C’è chi lo chiama “Medio Oriente post-americano”, o “Medio Oriente multipolare”. Tutte definizioni che lasciano spesso il tempo che trovano. L’America, infatti, non se ne è mai andata, pur avendo perso l’egemonia di un tempo, e perché una regione geopolitica sia davvero multipolare dovremmo vedere pochi capi e tanti gregari. Ma non è così. La descrizione più calzante del Medio Oriente odierno forse la dà Pierfrancesco Favino nei panni di “Libano” (soprannome particolarmente azzeccato per questo esempio) nel film Romanzo Criminale: “Se in un posto comandano tutti, vuol dire che non comanda nessuno”. È questo ormai il clima che pare emergere nella gestione di molte delle crisi più cruciali della regione, dalla Libia alla Siria, passando per il Golfo, l’Iran e l’Iraq. Certo, anche se non comanda nessuno possiamo comunque dire che alcuni giocatori sono stati, finora, assai più abili di altri.
Dal suo intervento in Sirianel 2015 la Russia è riuscita a ricostruire una influenza regionale di tutto rispetto usando con abilità i pochi veri strumenti di proiezione a sua disposizione: un esercito e una industria militare di un certo rilievo (anche se incomparabile a quella statunitense e destinata a essere presto superata dalla Cina) e una grande classe diplomatica, erede della tradizione sovietica. Altri, come gli Emirati Arabi Uniti (EAU) e il Qatar, dopo aver passato gran parte della propria storia moderna all’ombra di altre potenze, dalla Gran Bretagna agli Usa, sono assurti oggi a player indipendenti di primo piano nonostante la loro minuscola taglia territoriale e geografica, usando con disinvoltura il grande patrimonio messo loro a disposizione da ingenti riserve di idrocarburi. Anche la Turchia, dopo aver perlopiù ignorato il proprio vicinato orientale a favore dei suoi rapporti con l’Occidente per gran parte della sua storia repubblicana, da almeno un decennio è tornata a pesare nell’arena araba, diventando, nel bene e nel male, un interlocutore imprescindibile dalla Siria alla Libia e risvegliando in alcuni ricordi non sempre piacevoli di era ottomana.
Questo contenuto è riservato agli abbonati
Abbonati per un anno a tutti i contenuti
del sito e all'edizione cartacea + digitale della rivista di
geopolitica