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I popoli sono tutti in piazza


Dopo una tempesta rivoluzionaria è fondamentale dare seguito concretamente agli ideali che l’hanno provocata, per evitare involuzione anziché progresso

Ci volle poco per scatenare in Tunisia la prima delle primavere arabe. Bastò il suicidio di un piccolo negoziante che non riusciva più a mettere insieme il pranzo con la cena. Quel suicidio si trasformò però rapidamente in una scintilla destinata a dar fuoco alle polveri di un malcontento latente −  inespresso e per molti aspetti anche confuso − che si avvalse del tramite delle generazioni più giovani per coinvolgere in una intensa e momentanea fiammata pressoché tutto il mondo arabo prima di dilagare oltre.

Come spesso succede in occasioni del genere, i dimostranti sapevano molto bene cosa fosse ciò che non amavano, vale a dire la prospettiva di una vita che si annunciava povera e pressoché priva di occasioni e di sbocchi. Vissuta per di più in Paesi in cui la speranza individuale di una possibile ascesa sociale si faceva di giorno in giorno più illusoria e dove l’azione di Governo era condizionata da regimi dittatoriali e incompetenti. Nel contempo però le masse di giovani che animavano le dimostrazioni non erano né in condizione di definire con precisione ciò che volevano, né di dare un indirizzo positivo al successo delle loro rivolte. Nel medio termine esse finirono perciò con l’arenarsi, riuscendo soltanto a evidenziare la vulnerabilità dei regimi al potere e ad abbattere quelli che per differenti motivi non erano in condizione di opporre ai manifestanti una risposta ormai immediata, spesso violenta e in ogni caso del tutto priva di scrupoli.

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