“Le multinazionali che producono olio di palma stanno privando le comunità locali dell’accesso alla terra e alle risorse idriche essenziali e massimizzando i profitti attraverso lo sfruttamento dei lavoratori e dell’ambiente”. Questo uno dei passi più incisivi del report “Planet Palm Oil: peasants pay the price for cheap vegetable oil”, pubblicato lo scorso 22 settembre dalla ong Grain.
Uno studio in cui l’ong spagnola spiega con molta chiarezza come l’industria dell’olio di palma sia un business in piena espansione, che non sembra voler prendere in considerazione il problema dell’impatto ambientale fortemente negativo derivato dalla coltivazione delle palme, che ha determinato la distruzione di grandi estensioni di foresta tropicale.
L’olio di palma è molto diffuso nei nostri prodotti alimentari, dove viene spesso usato in sostituzione di oli animali o altri tipi di grassi vegetali. Di conseguenza, la domanda è destinata a crescere costantemente, grazie anche ad accordi di libero scambio che ne rendono più facile l’importazione.
I ricercatori di Grain spiegano che larga parte degli ingenti guadagni delle aziende impegnate nel commercio dell’olio di palma sono utilizzati per espandere i loro investimenti fondiari esteri nei Paesi in via di sviluppo, incentivando in questo modo il fenomeno dell’accaparramento di terre, noto come land grabbing.
Non a caso, il termine land grabbing è stato coniato proprio dalla Grain per descrivere un nuovo modello di controllo dei territori nei paesi del Sud del mondo, che si è diffuso all’inizio dello scorso decennio attraverso l’acquisizione da parte di soggetti stranieri pubblici o privati del diritto di coltivare terreni fertili.
Stando al rapporto dell’ong catalana, le multinazionali che producono olio di palma stanno acquisendo estensioni sempre maggiori di terra in Africa, dove nell’ultimo decennio hanno sottoscritto sessanta accordi per l’acquisizione di quattro milioni di ettari in Africa occidentale e centrale.
Purtroppo, a pagare le decime di questa pratica sono le popolazioni africane, che perdono la loro principale fonte di sostentamento. Mentre a guadagnarci, sono i compratori e i governi locali, che hanno il loro tornaconto derivato dalla cessione di smisurati appezzamenti a prezzi a dir poco irrisori, tali da rendere convenienti gli investimenti stranieri anche in zone prive di qualsiasi infrastruttura o addirittura politicamente instabili.
Un fenomeno in costante crescita tenuto sotto osservazione dal Land Matrix Project, una rete globale di ricerca che riunisce quarantacinque organizzazioni della società civile, che nell’aprile 2012 ha dato origine alla più grande banca dati esistente di questo tipo.
A dare il via all’acquisto di grandi appezzamenti di terreni in Africa è stata l’Arabia Saudita, che ha deciso di usare i petrodollari per acquistare migliaia di ettari di terreno in Etiopia e affittare immensi appezzamenti di terra in Zambia e in Tanzania, dove poter coltivare riso e cereali a buon prezzo per le esigenze alimentari dei sauditi.
La Cina, sempre in cerca di risorse alimentari e minerarie, ha subito seguito l’esempio di Riyadh, realizzando un vero e proprio rastrellamento di terre su scala mondiale, con particolare attenzione al continente africano, come prova l’acquisto di estesi appezzamenti di terreno nella Repubblica democratica del Congo, Zambia, Angola, Camerun, Uganda, Sudan, Zimbabwe, Malawi e Tanzania.
Una degli episodi più clamorosi di acquisizione è avvenuto in Liberia, dove il governo di Monrovia ha accordato per sessantatre anni ad un costo inferiore ai cinque dollari l’ettaro, la concessione di 310mila ettari di terre nella Liberia nord-occidentale alla Sime Darby, una società malese leader nella produzione di olio di palma.
Secondo gli accordi, il trasferimento della terra sarebbe avvenuto nella piena disponibilità degli affittuari senza che ai contadini, che ricavavano sostentamento da quella terra, sia stato garantito alcun risarcimento. A sostegno degli agricoltori sono partite una serie di iniziative, anche legali, che però si sono rivelate di poco conto in ragione del fatto che dietro la Sime Darby c’è un groviglio di interessi riconducibili a importanti istituti finanziari europei come Deutsche Bank, Axa Group, Schroders, Hsbc e Standard Charter.
Purtroppo, appare evidente che questa corsa indiscriminata all’accaparramento delle terre, cela un’insidiosa forma di sfruttamento commerciale, che può creare scompensi sociali e secondo lo studio, sfociare anche in violenti conflitti in diversi Paesi.
“Le multinazionali che producono olio di palma stanno privando le comunità locali dell’accesso alla terra e alle risorse idriche essenziali e massimizzando i profitti attraverso lo sfruttamento dei lavoratori e dell’ambiente”. Questo uno dei passi più incisivi del report “Planet Palm Oil: peasants pay the price for cheap vegetable oil”, pubblicato lo scorso 22 settembre dalla ong Grain.