La macchina mediatica del Cremlino sfrutta il fianco scoperto dei media democratici. La sua forza è nel non avere alcun interesse nella verità e nel non porsi il minimo problema a deformare la realtà al servizio della propaganda. Ma combatterla con gli stessi mezzi è una trappola.
Quando ho finito di leggere La guerra di Putin alla verità, l’editoriale di Julian Reichelt sul tedesco Bild, ho provato uno strano senso di soddisfazione e frustrazione allo stesso tempo. Ero d’accordo con molte delle cose che ha scritto, eppure i conti non mi tornavano. Reichelt è un giornalista con una lunga esperienza da inviato di guerra, quindi sa di cosa parla quando dice che “la nostra modesta ma più potente arma sono le parole. Non dovremmo usarle con leggerezza, specialmente quando si tratta di descrivere situazioni che minacciano i nostri valori”. Il suo consiglio contro l’agguerrita propaganda dei mezzi di stampa russi è, tradotto in soldoni, di non castrarsi con il diplomatichese e il politically correct, e poi è passato a fare degli esempi. Ed è stato qui che il cerchio non quadrava.
Terroristi vs golpisti
La infowar di Putin ha i suoi strumenti e i suoi metodi. Le parole sono uno di questi. Per i media russi l’annessione della Crimea è “il ritorno” alla madrepatria, Euromaidan è stata un colpo di stato e Kiev è governata da una giunta golpista. Quando non vogliono calcare troppo la mano, come nel caso dei mezzi in lingua inglese rivolti al pubblico straniero, si limitano a utilizzare espressioni neutrali che non collidono con la versione ufficiale, così i separatisti sono milizie di difesa e i soldati russi in Donbass sono tutti volontari.
Secondo Reichelt tutte le volte che ci limitiamo a usare anche noi delle parole neutrali, non facciamo altro che fare un favore alla propaganda russa. “Le parole diplomatiche dette in buona fede sono la forma più pericolosa di propaganda”, scrive.
Ma è qui che, dicendo una cosa condivisibile, sbaglia. Perché tutte le volte che nei nostri giornali leggiamo (e succede) colpo di stato a Kiev o terroristi russi, la propaganda – da una parte e dall’altra – ha sottratto ancora un po’ di terreno all’informazione.
Reichelt fa un esempio in particolare: guerra civile. A essere onesti, dice, dovremmo parlare di aggressione o invasione russa dell’Ucraina. Siamo sicuri?
Una trappola
Prendo il dizionario Treccani alla voce guerra civile e trovo: “Conflitto combattuto tra i cittadini di uno stesso Stato diviso in fazioni”. È questo che c’è oggi in Ucraina? Sì, anche. Ci sono cittadini ucraini che hanno preso le armi contro propri connazionali, così come ci sono militari e armi che arrivano dall’altra parte del confine con la Russia. Se parlassi di aggressione racconterei solo una parte della storia.
Non è per approssimazione e ingenua buona fede che i media occidentali più autorevoli non parlano di invasione russa o di terroristi dell’est. È invece per la stessa ragione per cui non chiamano il governo di Kiev giunta golpista e quando nominano la Crimea usano la parola “annessione”. Perché le parole strillate e gli slogan è meglio lasciarli ai megafoni in piazza. Perché, con tutti i loro difetti e limiti, i mezzi di informazione dei Paesi democratici svolgono il loro compito rispettando le regole dell’informazione e, soprattutto, il loro pubblico. E, infine, proprio per quei valori minacciati di cui parla Reichelt. Per la propaganda questo è il loro punto debole, da sfruttare per invaderne il campo e giocare sporco. Ma non è così. Se cominciamo a strillare anche noi diventiamo parte in causa. Conquisteremo una tifoseria, ma giocheremo sporco anche noi.
Se la nostra arma sono le parole usiamole con tutta la loro forza, che è nella credibilità ed equilibrio, e non nei toni.
@daniloeliatweet