Quattro anni dopo l’uccisione di Gheddafi e la fine della prima guerra civile libica, e un anno abbondante dopo la deflagrazione dello scontro tra il governo islamista di Tripoli e quello internazionalmente riconosciuto di Tobruk (seconda guerra civile libica), l’ex colonia italiana ancora non riesce ad emergere dal caos in cui è sprofondata. La missione dell’inviato Onu, lo spangolo Bernardino Leon, si è conclusa il 20 ottobre con un nulla di fatto: un anno di mediazioni e trattative – che nelle intenzioni della comunità internazionale avrebbero dovuto portare alla nascita di un governo di unità nazionale, per contrastare il flusso migratorio nel Mediterraneo e l’ascesa dell’Isis in Libia – non è bastato.
Sia a Tobruk che a Tripoli, per ora, il piano di Leon non è stato accettato (secondo il ministro degli Esteri italiano, Paolo Gentiloni, non si tratta di una vera bocciatura in quanto i parlamenti ancora non si sono espressi). Adesso la parola passa al suo successore, il tedesco Martin Kobbler, a cui spetta il difficile compito di trovare una quadratura del cerchio in un Paese non solo diviso tra due governi rivali, ma frammentato in centinaia di milizie, paradiso dei traffici illeciti (specie di esseri umani), dove ha trovato spazio lo Stato Islamico e dove gli scontri – tra bande criminali, gruppi etnici e tribù – sono all’ordine del giorno.
«La Camera dei Rappresentanti a Tobruk ha detto che voterá sulla proposta di Leon lunedí prossimo. Tuttavia il generale Haftar ha fatto capire chiaramente che non gradirebbe un voto a favore dell’accordo e ha giá dimostrato in passato di avere un certo ascendente su Tobruk», spiega Mattia Toaldo, analista dell’European Council on Foreign Affairs esperto di Libia. «A Tripoli ci sono simili pressioni dei gruppi armati. L’obiettivo dei duri, al di lá dei proclami di guerra, é la continuazione dello status quo. Tuttavia con l’andare del tempo l’equilibrio si fa sempre più precario e Isis si espande. Il problema di fondo é ottenere un voto favorevole ad un accordo di pace da parte di parlamenti che sono sotto pressione di gruppi armati che verrebbero marginalizzati da quell’accordo». E fintanto che l’intesa non viene raggiunta rimangono ai blocchi di partenza le soluzioni internazionali per il caos libico. L’Onu ha infatti chiaramente detto che non intende autorizzare alcuna missione fintanto che i due parlamenti libici non troveranno un accordo, e anche l’Unione europea – che ha pronto un sostanzioso pacchetto di aiuti per la Libia – non può muoversi in assenza di un governo di unità nazionale.
Le pressioni internazionali si stanno dunque facendo sempre più forti sui due principali attori libici, anche per contrastare le spinte speculari di chi – Haftar come le milizie islamiche, sostenuto l’uno dall’Egitto le altre dalla Turchia – avrebbe tutto da perdere da un’eventuale intesa. La speranza è che Kobbler non debba ricominciare da capo ma, anzi, che riesca nell’impresa sfuggita per poco a Leon di percorrere l’ultimo miglio per arrivare a una soluzione concordata tra le parti. «La Libia rischia di diventare una Somalia alle porte del Mediterraneo», afferma Leandro Di Natala, analista dell’European Strategic Intelligence and Security Center. «Al momento l’unica strada che sembra essere rimasta all’Occidente, per costringere gli attori libici all’accordo, è quella di imporre delle sanzioni – congelamento conti, divieto di espatrio etc. – a quei soggetti che per proprio interesse stanno ostacolando il raggiungimento di un’intesa, come il generale Haftar a Tobruk e il gran muftì Sadiq Al-Ghariani a Tripoli, ad esempio. Altrimenti si corre il rischio di una scissione del Paese: la Cirenaica si separa dalla Tripolitania, rimanendo sotto il controllo militare di Haftar e col sostegno dell’Egitto, e nascono due Stati indipendenti. Al momento infatti nessuna delle due fazioni è abbastanza forte da poter pensare di prevalere militarmente sull’altra».
Se anche alla fine l’accordo venisse raggiunto, la situazione rimarrebbe comunque delicatissima. «Il documento preparato da Leon aveva l’avallo di 50 milizie di Misurata, ma è bastata l’opposizione di una delle più forti – la Central Shield Force, sospettata di legami con Al Qaeda – e di pochi altri “falchi” per far scattare il “no” della politica. In uno scenario tanto frammentato e violento, una qualsiasi missione terrestre internazionale in Libia dovrebbe mettere in conto di subire attacchi e probabilmente perdere uomini», prosegue Di Natala. «In particolare l’Italia sembra volersi candidare al ruolo di guida di questa eventuale missione. Ancora di recente – nell’ambito della missione marittima “Mare sicuro” – ha compiuto un’operazione nei pressi delle coste libiche con fucilieri e incursori di marina per contrastare il traffico di vite umane (arrestati 17 presunti scafisti in acque internazionali), che sembra un segnale in tale direzione. Devono essere chiari – conclude Di Natala – i rischi a cui si andrebbe incontro». Riattivare l’economia libica – incentrata prevalentemente sull’esportazione di petrolio – sarebbe probabilmente il miglior viatico per diminuire la violenza nel Paese e, per storia e rapporti economici, l’Italia ha il massimo interesse a che ciò avvenga. Guidare la missione internazionale incaricata di affiancare le autorità libiche nella ricostruzione di uno Stato avrebbe dunque sicuramente anche un tornaconto economico, oltre che di immagine. Ma tra la situazione attuale e quell’obiettivo si pone il problema non solo di costringere Tripoli e Tobruk a un accordo e a ottenere successivamente un mandato internazionale, ma anche di portare militari italiani in uno scenario dove imperversano criminalità, gruppi armati e Stato Islamico. E accettarne le conseguenze.
@TommasoCanetta
Quattro anni dopo l’uccisione di Gheddafi e la fine della prima guerra civile libica, e un anno abbondante dopo la deflagrazione dello scontro tra il governo islamista di Tripoli e quello internazionalmente riconosciuto di Tobruk (seconda guerra civile libica), l’ex colonia italiana ancora non riesce ad emergere dal caos in cui è sprofondata. La missione dell’inviato Onu, lo spangolo Bernardino Leon, si è conclusa il 20 ottobre con un nulla di fatto: un anno di mediazioni e trattative – che nelle intenzioni della comunità internazionale avrebbero dovuto portare alla nascita di un governo di unità nazionale, per contrastare il flusso migratorio nel Mediterraneo e l’ascesa dell’Isis in Libia – non è bastato.