Il Consiglio presidenziale libico guidato da Fayez al Sarraj – nato sotto la spinta del negoziato voluto dall’Onu per unire il Paese e, tra le altre cose, sradicare lo Stato Islamico – nei giorni scorsi ha chiesto ufficialmente di interrompere qualsiasi offensiva militare contro le postazioni dell’Isis a Sirte. Dietro quello che a prima vista può sembrare un paradosso si nascondono le contraddizioni e le gravi problematiche della Libia in questo momento.
Su Sirte pare stiano infatti convergendo due diverse forze militari, quelle legate al generale Khalifa Haftar – capo delle forze armate di Tobruk, dove risiede il parlamento riconosciuto dalla comunità internazionale ma che finora si è rifiutato di dare il suo sostegno a Sarraj – e quelle della brigata di Misurata. Quest’ultima da quando Sarraj è sbarcato nella capitale ha dato il suo appoggio al governo unitario targato Onu, ma in passato era la principale fazione militare che sosteneva il parlamento di Tripoli (quello “islamista” vicino alla Turchia e alla Fratellanza Musulmana, non riconosciuto internazionalmente). Se i due schieramenti dovessero entrare in collisione non solo se ne avvantaggerebbe l’Isis, ma si rischierebbe di sprofondare il Paese in una guerra civile. Di qui la richiesta di Sarraj di fermare l’offensiva e di aspettare la creazione una leadership militare congiunta per le operazioni contro lo Stato islamico a Sirte.
Contro la degenerazione dello scontro tra Sarraj e Haftar sono in teoria allineati tutti gli attori occidentali, europei e Stati Uniti, e le stesse Nazioni Unite. Tuttavia c’è chi soffia sul fuoco e chi si tiene le mani libere per qualsiasi evenienza. Alla prima categoria appartengono sicuramente l’Egitto, che di Haftar è il primo sostenitore e che ha mire egemoniche sulla Cirenaica controllata dal generale, e le monarchie del Golfo. È riconducibile a queste ultime ad esempio la corposa spedizione via Egitto di oltre mille mezzi militari (400 blindati leggeri e 650 pickup modificati), in barba all’embargo sulle armi che vige per la Libia, alle forze armate di Tobruk. «L’obiettivo principale dei sostenitori di Haftar è imporlo nella trattativa da una posizione di forza», spiega Arturo Varvelli, ricercatore dell’Ispi esperto di Libia. «L’Egitto e i Paesi del Golfo – e in modo più ambiguo anche la Francia – vogliono impedire la rimozione di Haftar. Si tratta di un obiettivo pericoloso. Il generale è un elemento fortemente divisivo e, se i suoi “protettori” non acconsentono a che sia sacrificato nella trattativa, il rischio è di perdere il sostegno alla trattativa Onu di molte milizie tripolitane (alcune delle quali stanno ora dando segnali incoraggianti per Serraj). Inoltre Haftar è un cane sciolto, persegue anche suoi personali disegni nella partita libica e armarlo oggi, come stanno facendo alcuni Paesi, potrebbe essere un problema domani».
Addirittura c’è chi ipotizza che il primo obiettivo delle forze del generale, ora sostanziosamente rafforzate, non sarà lo Stato Islamico ma i pozzi di petrolio del bacino della Sirte, in gran parte controllati dalle milizie petrolifere di Ibrahim Jadhran, unico o quasi attore della Cirenaica ad essersi schierato con Sarraj prendendo le distanze da Haftar. In questo quadro si potrebbe quindi interpretare la richiesta di Sarraj all’Occidente di “proteggere le installazioni petrolifere” del Paese. Non contro gli uomini del Califfo, ma contro i soldati di Haftar. «Il rischio che si arrivi a uno scontro tra le truppe del generale e milizie che sostengono il governo appoggiato dall’Onu c’è», sostiene Varvelli. «E sarebbe un segnale che gli Stati che lo supportano non riescono a controllarlo a sufficienza. Un effettivo scontro con forze che si sono schierate con la comunità internazionale sarebbe un fatto molto grave. Proprio per questo tuttavia penso che Haftar ci penserà molte volte prima di aprire le ostilità, e secondo me al momento non è comunque abbastanza forte per potersi permettere una mossa del genere».
Ma, come si diceva, oltre ai Paesi che direttamente mirano a far deragliare il tentativo di Sarraj, ci sono anche Stati che dietro alle dichiarazioni pubbliche mantengono un atteggiamento di maggiore realpolitik. In Europa in particolare è la Francia che sembra divisa – forse tatticamente – al proprio interno tra un convinto sostegno al governo unitario sponsorizzato dall’Onu e il mantenimento di una relazione privilegiata con Haftar (cioè anche con l’Egitto e con le monarchie del Golfo, con cui Parigi sta chiudendo affari miliardari per la vendita di armamenti). Oltre agli interessi economici legati ai sostenitori del generale, la Francia ha poi delle mire espansionistiche sulla Libia fin dai tempi dei bombardamenti contro Gheddafi nel 2011. Una scissione del Paese, con una Cirenaica indipendente – e sottratta all’influenza del governo centrale, tradizionalmente e anche ora più vicino all’Italia -, potrebbe essere nell’interesse di Parigi, economico e non solo. In Africa infatti la Francia sta portando avanti un deciso contrasto militare al jihadismo – obiettivo che condivide con il Cairo –, specialmente con l’operazione Barkhane: una missione che coinvolge oltre tremila uomini delle forze francesi e che si dispiega nel Sahel attraverso cinque stati (Mali, Niger, Chad, Burkina Faso e Mauritania), due dei quali confinanti con la Libia.
«In questo momento, con il consiglio presidenziale guidato da Serraj a Tripoli che sta espandendo la sua influenza nel Paese, si può dire che l’Italia ha ottenuto – muovendosi nell’ambito della cornice della trattativa Onu – un ottimo risultato per i suoi interessi nazionali», dice ancora Varvelli. «Lo stesso non può dirsi per gli altri Stati, che spesso sono nostri alleati, coinvolti nella partita: Francia, Egitto ed Emirati. È con loro che andrà trovato un bilanciamento di interessi e si potrebbe anche pensare di concedere che Haftar resti in una posizione di potere, magari affidandogli la sicurezza della Cirenaica e trovando un suo pari grado per fare lo stesso in Tripolitania, e avendo entrambi integrati in un progetto unitario. La creazione di un esercito libico – che abbia un nucleo “nuovo” assolutamente fedele, ma che sappia integrare progressivamente le milizie esistenti – è fondamentale per il nation building di cui la Libia ha bisogno. Serve un nuovo patto sociale tra tutti i vari attori del Paese», conclude Varvelli. «Non dobbiamo inviare chissà quanti uomini per supportare questo processo. La Libia deve trovare una stabilità autoctona e con le sue forze sarà in grado anche di sconfiggere lo Stato Islamico». Trovare un accordo sulla creazione di un comando congiunto per l’offensiva su Sirte contro l’Isis, come chiesto da Serraj, potrebbe essere un primo importante passo nella giusta direzione.