La Libia ha un piede e mezzo nel baratro del caos. Quasi due anni di guerra civile – con due parlamenti (a Tripoli e Tobruk) impegnati a combattersi, una crescente infiltrazione dello Stato Islamico a Sirte, una dilagante frammentazione del potere, con bande criminali, milizie e gruppi jihadisti che prosperano nell’anarchia – hanno ridotto allo stremo l’economia e quel che resta del tessuto sociale libico.
L’accordo firmato da diversi rappresentanti delle due assemblee legislative (e non solo, anche sindaci e capi tribù) in Marocco il 17 dicembre, sotto una determinante spinta della comunità internazionale, è l’estremo tentativo di salvare il Paese, pedina fondamentale nel Mediterraneo per il controllo dei flussi migratori e per il mercato energetico.
«Credo che si sia fatto bene a procedere col negoziato, pur con la contrarietà dei presidenti dei parlamenti di Tripoli e Tobruk. Finora gli era stato concesso un ruolo di interdizione politica esagerato rispetto al reale seguito che avevano nel Paese. Se avessimo aspettato un loro via libera saremmo probabilmente andati avanti all’infinito. Ma tanto premesso, secondo me questo accordo resta una scommessa, e con poche chance di risultare vincente», sostiene Arturo Varvelli, ricercatore dell’Ispi ed esperto di Libia. «Sono scettico sul fatto che possa reggere, in particolare perché – pur esprimendo il massimo dello sforzo internazionale – è un accordo di carattere politico, e la politica in Libia conta relativamente poco. Conta chi ha le armi in mano, le milizie, e tra queste non si può escludere che siano numerose quelle tentate dal creare una fronda ostile all’intesa. Molto si capirà dalla fase di implementazione dell’accordo delle prossime settimane. Si farà un patto sulla sicurezza che consenta al nuovo governo di insediarsi a Tripoli? Al momento Paolo Serra (consigliere militare dell’Onu, che affianca il tedesco Kobler nella sua missione diplomatica in Libia) sta ancora trattando, un compromesso condiviso ancora non è stato trovato. Se lo fosse, allora si potrebbe ragionare sul portare il governo unitario nella capitale, e magari assisterlo con una missione internazionale di addestramento dell’esercito libico e di State Building. Ma senza un via libera da parte degli attori locali tutto questo sarebbe impossibile, e proprio sulla difficoltà di costringere le varie milizie a un’intesa si fonda il mio scetticismo».
Un tentativo di sabotaggio dell’accordo sarebbe già in corso. «I falchi dei due parlamenti hanno incaricato diciassette deputati per parte di condurre una trattativa “libica-libica” – cioè senza l’assistenza della comunità internazionale –, parallela a quella nata dalla firma dell’accordo in Marocco del 17 dicembre, con lo scopo di far deragliare quest’ultima», spiega Mattia Toaldo, analista dell’European Council on Foreign Relations. «Per ora sembra comunque che la maggior parte delle milizie più importanti sostenga l’intesa promossa dalla comunità internazionale, e il negoziato ha visto una partecipazione alta (anche se non altissima) dei vari attori libici. Tuttavia la situazione resta delicatissima. Nei 40 giorni che sono stati dati al nuovo governo unitario per strutturarsi – possibile che i tempi si allunghino, come già spesso accaduto in passato in Libia – il deragliamento del processo istituzionale è dietro l’angolo. La Russia, che pure ha sostenuto il recente accordo, ha già espresso alcune perplessità tramite il ministro Lavrov, e ha ospitato alcuni delegati dell’assemblea di Tripoli ostili alla trattativa. Le potenze sunnite, anche loro a parole favorevoli all’intesa, a fronte di eventuali fibrillazioni sul terreno potrebbero tornare a interferire nella questione libica. Insomma l’incidente è una seria possibilità. Bisognerà capire se gli esclusi dal nuovo governo di unità nazionale saranno abbastanza forti per impedirgli di svolgere le sue funzioni. Un altro rischio poi – prosegue Toaldo – è quello che alcuni attori stiano cercando di provocare un intervento militare occidentale, agitando lo spauracchio della caduta di Ajdabiya (importante snodo petrolifero) nelle mani dell’Isis. Se la provocazione dovesse riuscire il neonato governo sarebbe di fatto in un vicolo cieco: se appoggiasse apertamente l’intervento occidentale confermerebbe la propaganda dei suoi detrattori che già lo dipingono come fantoccio di europei e americani, se invece si opponesse si paleserebbe la sua irrilevanza. L’unica soluzione compatibile con la salvaguardia della credibilità del nuovo governo è che anche la questione Stato Islamico venga affrontata in primo luogo dai libici. Per aiutarli l’Europa, e l’Italia in particolare, al massimo può intestarsi una missione di addestramento delle truppe regolari libiche (qualora venissero costituite), ma al momento è impensabile che prepari un intervento militare di terra. Eventuali soluzioni intermedie poi – appunto, bombardamenti “stranieri” contro una città libica occupata dall’Isis, ma in maggioranza abitata da civili, come Sirte – rischiano di essere controproducenti».
Anche il tempo non scorre a favore della soluzione negoziale del caos libico. «Se dovesse proseguire la situazione di anarchia e frammentazione delle istituzioni – anche finanziarie – del Paese, il totale sfacelo sarebbe inevitabile», dice ancora Varvelli. «Già adesso la Banca centrale è costretta a pagare gli stipendi di due amministrazioni distinte (Tripoli e Tobruk) e le esportazioni di gas e petrolio da tempo sono a un quinto delle normali capacità. Senza una tregua che porti a una soluzione unitaria presto i soldi a livello centrale finiranno. Con la possibilità che l’unico governo “legittimo” sia in esilio (magari in Tunisia, mentre le assemblee di Tobruk e Tripoli restano al loro posto, “protette” da milizie fedeli), il rischio che il controllo dell’economia finisca quasi interamente nelle mani dei gruppi armati, criminali e jihadisti sarebbe molto serio. In un simile scenario – in cui appunto l’accordo siglato in Marocco si rivelasse lettera morta – potrebbe anche tornare credibile la possibilità di scissione del Paese, tra Cirenaica e Tripolitania. Ciò sarebbe possibile – conclude Varvelli – specialmente se un attore militarmente forte (ad esempio il generale Haftar, finora sponsor di Tobruk) operasse una scissione di fatto. A quel punto un riconoscimento informale da parte delle potenze regionali sarebbe probabile, e l’unità della Libia definitivamente compromessa».
La Libia ha un piede e mezzo nel baratro del caos. Quasi due anni di guerra civile – con due parlamenti (a Tripoli e Tobruk) impegnati a combattersi, una crescente infiltrazione dello Stato Islamico a Sirte, una dilagante frammentazione del potere, con bande criminali, milizie e gruppi jihadisti che prosperano nell’anarchia – hanno ridotto allo stremo l’economia e quel che resta del tessuto sociale libico.