Lanciato quasi in sordina dall’autoproclamato presidente della cosiddetta repubblica di Donetsk, Aleksandr Zakharchenko, il nuovo non-Stato è il risultato del fallimento degli accordi di Minsk. E del successo di Poroshenko.
Che senso ha lanciare l’idea di un nuovo Stato proprio adesso, ora che le autoproclamate repubbliche di Donetsk e Luhansk hanno già alle spalle tre anni di storia (per modo di dire) indisturbata? Per giunta, uno Stato che dovrebbe comprendere non solo il territorio già sotto il controllo dei separatisti, ma addirittura tutta l’Ucraina (tranne la Crimea, già annessa)?
Apparentemente davvero nessuna. E sembrerebbero confermarlo sia la fredda accoglienza ricevuta in Russia dall’iniziativa di Zakharchenko, sia la distanza presa dal suo “omologo” di Luhansk, Igor Plotninsky.
Insomma, a prima vista il progetto Malorossija sembra non piacere a nessuno.
Eppure un senso, visto da Donetsk e da Mosca, ce l’ha.
Novorossija
Malorossija fa infatti rima con Novorossija. Il progetto di un nuovo Stato che avrebbe dovuto comprendere tutto l’est e il sud dell’Ucraina, ricongiungendo la Madre Russia via terra alla Crimea. Un progetto nato all’indomani dello scoppio della guerra, fallito miseramente per due fondamentali ragioni: la mancanza di adesione spontanea della popolazione interessata (che spiazzò gli architetti della Novorossija) e il dramma del volo Malaysia MH17, abbattuto con ragionevole grado di certezza da un missile antiaereo russo.
Il nuovo Stato si sarebbe dovuto fondare sulla collettivizzazione delle terre, la nazionalizzazione delle industrie, l’unità culturale col mondo russo. Il fine ultimo di Novorossija sarebbe stato quello di entrare a far parte dell’Unione eurasiatica tanto voluta da Mosca e riunirsi un giorno alla grande patria putativa russa.
Le cose non sono andate così. La Russia ha cambiato piano in corso d’opera, rinunciando ad annettere i territori separatisti e mandando in soffitta il progetto. Per Mosca, andava bene il conflitto semi-congelato dagli accordi di Minsk. Quanto bastava a minare l’integrità ucraina e a destabilizzare il Paese.
Riscrivere Minsk
Ora anche questo piano sembra superato. È diventato evidente che nessuno più vuole accollarsi il Donbass impoverito, spopolato, devastato dalla guerra. Non solo la Russia, ma nemmeno l’Ucraina è più così interessata a sprecare vite e risorse per riconquistare il controllo su quel territorio.
E poi ci sono gli accordi di Minsk: una fregatura per Kiev, che nel momento in cui ha messo la firma sotto quel documento aveva la pistola di Putin puntata alla tempia.
Ma in questi tre anni, il governo di Kiev, ha guadagnato tempo e consapevolezza. L’appoggio occidentale, tra le sanzioni alla Russia e il cambio di passo della Nato, si è fatto sentire. La politica di Poroshenko si è potuta fare più audace e scaltra. Kiev ha di fatto scaricato il Donbass, che sta perdendo sempre più il suo potere destabilizzante. Mosca, insomma, sta vedendo la propria arma principale afflosciarsi tra le mani.
E allora, sostituire l’Ucraina con la Malorossija – anche se solo nelle parole di Zakharchenko – può non essere poi un’idea così insensata per il Cremlino. Punge sul vivo i nazionalisti e fa rizzare le antenne ai partner occidentali dell’Ucraina. Può sembrare in ultima analisi la minaccia di riaccendere il conflitto.
Kiev e l’Occidente, però, devono aver chiaro che si tratta solo dell’ennesima prova che gli accordi di Minsk sono da cancellare e riscrivere. Sulla base di un nuovo equilibrio di forze.
@daniloeliatweet